venerdì 28 settembre 2012

mi dicono lanceolata

mi dicono lanceolata (1)

guarda quelle d'ulivo
mosse appena, nugolo compatto

noi distiamo e il suolo appare
sempre presente, contraltare

un affaccio di foglie, un balcone
fuori terra un terzo piano
vede forse così, la foglia d'elce

più o meno ovata, mi dicono (2)
la distanza dal caule, sì varia
mi descrive di lamine
e pagine

a fatica stormiamo, ancorate a un autunno
di rami e anime
e venti che opprimono
sullo sterno degli alberi
ci appuntano a volte due cuori, una freccia
d'adolescenti graffiti
il resto è pena che preme
è piede che sfonda
il verde e la voglia.

Più che un abbozzo, è un appunto di poca presa, nella forma, che è poi ciò che appare, e che attira o respinge. O peggio: quello che si è o si rappresenta agli occhi degli altri, cioè forma. Da giorni mi ronza per la testa qualcosa che mi parla in forma di foglie. Non so dare voce a questo 'qualcosa', ma in qualche modo dovevo pur dirne...tantoppiù che mi gira la testa, sempre di più, sempre più spesso. Forse sono le foglie.
O l'autunno. O a 'pocundria.
Mi annoto da me, altrimenti dimentico (e sai che perdita!!!) che :
1. E' una foglia d'oleandro che parla e si sente descritta come, ecc.
2. E' una foglia d'ulivo che, più o meno, risponde...e sì, le foglie 'fanno parole'.

Vabbè.

martedì 25 settembre 2012

a fatica i varchi

a fatica i varchi delle foglie si aprono
di risaputo autunno
Fontana dell'Alice, XVII sec.
pure
barche indifese arrancano in vista
di margini, e scogliere
e dolcezze d'accosti, rive

nella solitudine, sconosciuta
la fonte dell'Alice
ci bagnava di felicità
e mite di rovine
scacciava i pensieri

ulivi, fronde
e il treno a rilasciare una stria sonora
un fischio a scavalcare
il Ponte Storto

una marina d'argento m'insegue
con sabbie e minime conchiglie
che mi ha rubato il tempo
ora che il palmo delle mani mi ricorda
fiumare che solco con le dita
e l'autunno è alle porte
con le sue foglie da dimenticare.

lunedì 24 settembre 2012

fino all'ultima foglia

fino all'ultima foglia
respiro in ambio
come di piazza grande
secca di tintinnìi
e scalza
d'anime leggere
di sorrisi e abbrivi
mi distoglie
un caleidoscopio di raggi
e gonne e lenti contro il sole

sono nelle mie spalle e il peso
che si fa bastante
attenua il vuoto
il senso lo smarrito perdurare
e critico, schiaccio
una bottiglietta di bile
che si fa selciato.




domenica 23 settembre 2012

solo un verso

tra di noi
solo un verso
come d'autunno
un grumo

onduli in filari di orizzonti
le uve e i seni
il vento offusca e di lontano
non distingue
labbra, mani e intorno
cesìna e debbio
sull'erta nuda il luogo
il seme futuro, il grano.




venerdì 21 settembre 2012

Matteo Amoruso: Incompleto.

Matteo dice di averla scritta in endecasillabi. Con l'entusiasmo che mi pervade in questi ultimi tempi l'ho invitato a controllare, e di ripensare alle regole della metrica, che sono insidiose alquanto, poiché non basta contare fino a undici per 'leggere' un endecasillabo. In casa dicono che se fossi stato un insegnante sarei stato insopportabile. Sì, lo credo anch'io, ma alla fine avrei promosso tutti, tranne me. Vabbè.

Incompleto.
Sentirsi sospesi nel vuoto, pèrsi
avere paura delle proprie òmbre
degli sguardi, dentro silenzi immèrsi
delle mie parole, così ingòmbre
e per capirsi non basta lo sguàrdo
ma con frasi incerte, nella penòmbra
conoscere qualcuno non azzàrdo
di me so fare ritratto offuscàto
non altro che un viso, né beffardo
né malizioso, né furbo, sfiancàto
non so dire, ch'_io sia, tutt'è_niente
nulla sé, tutti siamo, mascheràto
d'un lugubre carnevale, silènte
maschere dietro ad anime tristi
sul ballatoio del mondo, danzanti.

Forse Matteo ha impiegato accenti e trattini d'unione per convincermi, ma non ce n'era bisogno. E' lui che deve viaggiare, io mi sono fermato da un pezzo, e mi spiace ancora che qualcuno mi guardi come una pietra miliare, sia esso un figlio o un amico. Dal cavo nella volta celeste, mi confronto ogni giorno con l'unico dio che rimane:  Termine.

domenica 16 settembre 2012

Carmine Abate.

Carmine Abate ha vinto il Campiello, il cinquantesimo (qualcosa che succede per la prima, decima, cinquantesima o centesima volta acquista sempre un'aura per così dire 'particolare', una specie di valore aggiunto, per abusare di questo modo di dire che nemmeno prediligo): me lo ha detto mia moglie, all'indomani della assegnazione, pensando di farmi contento, in questo periodo non certo dei migliori per me. Le ho risposto un po' freddamente che sì, che tornando a casa in auto avevo sentito alla radio che il romanzo del calabrese Carmine Abate era tra i candidati più accreditati, con la sua 'Collina del vento'. Calabrese, come nel Medio Evo, quando si diceva il calabrese Barlaam o il calabrese Gioacchino da Fiore...uguale!
Vivo in una casa quasi fatta di libri: le infiltrazioni d'acqua dal tetto erano una minaccia costante, che speriamo d'aver finalmente risolto con l'ultimo, oneroso intervento, dopo il quale i libri si sono finalmente rasserenati: glielo dovevamo, non solo io, ma anche gli altri lettori che vivono in questa casa, quelli più giovani che non usano le lenti per leggere, quelli che si sono rassegnati a usarle, cioè mia moglie, ed io che vivo questo abbassamento della vista quasi come un tradimento, poiché negli occhi e nel sangue ho sempre creduto fermamente, anche troppo.
Dei libri potrei dire che sono di casa, qui dentro, che le loro parole diventano quasi gesti familiari, anche con le righe che non ho letto, e che mai leggerò e che sono qui, e fanno compagnia, partecipano comunque della nostra esistenza...è un po' difficile da dire, ancor più da spiegare, lo so...ma c'è stato un tempo in cui provavo a disporre i libri in modo da vederne solo la parte opposta al loro dorso...eppure, eppure li riconoscevo tutti, ad uno ad uno, e chissà se riuscirei a individuarli anche al solo tatto...Francesco, mio figlio più grande e lettore più accanito, mi dice che ho un bel lamentarmi che non ricordo nulla, e che sto invecchiando, e che gli fa rabbia la precisione con cui tiro fuori dal cilindro, magari un po' impolverato, il libro che lui cercava da tanto tempo. Io la butto sulla fortuna, sulla inutilità di queste contingenze, ma lui non mi sembra molto convinto, almeno nella misura in cui io non mi sento convincente...
Tra questi libri che ci contornano, anche quelli di Carmine Abate, che chiamo a volte 'u ggheggh', a volte 'u scarfizzòt', come se fosse uno che vediamo passare sotto casa, con quel colorito olivastro (almeno così lo immagino, e così deve essere: non ci sono santi, compà!), che tanto dice di koinè non solo linguistica, ma per così dire, di sangui e umori. E poi, sti ggheggh, mica male...Gerolamo (Jeronimo) De Rada, Giuseppe Gangale...avete avuto modo di leggere la poesia di quest'ultimo(1), posta all'ingresso del cimitero di Cirò Marina, che per inciso è il mio paese? (E non dico 'paese d'origine' o altre amenità del genere: esso è oppure non è, punto.) Che poi ggheggh non è dispregiativo, essendo semplicemente, i gheghi, gli albanesi che vivono a nord del fiume Drin, tutto qui, se non ricordo male, e si vede che rappresentavano la maggioranza di quanti cercando di sfuggire alle persecuzioni ottomane si rifugiarono nel Sud d'Italia...
Anche Nicola, il mio amico di una vita, sapeva del Campiello e mi ha detto, come sempre, se sapevo che Carmine Abate è molto amico di suo fratello, quello più piccolo. E siccome la notizia ci riguarda così da vicino ne ho parlato a mio compare Peppino dei Bucchi, che compra tutti i libri di Camilleri, e, dopo che la sua moglière romagnola li ha letti, li passa a me, e alla fine ogni tanto fissijamo in similvigatese. E tutte le volte gli ripeto che secondo la mia teoria i greci che hanno popolato Akragas e Krimisa dovevano essere pajsani, ché troppo i nostri dialetti si somigliano...almeno questa è la mia teoria.
Peppino lo chiama solo per nome, a Càrmn, l'ho notato già da un po', e non so perché, ma i libri di Càrmn Abàt non ce li passiamo, li acquistiamo separatamente, e mi sembra quasi di obbedire ad un tacito accordo, nel rispettare questa specie di consegna...non so, a me sembra che entrambi, io e Peppino, che poi è uno dei pochi, e comunque tra i miei colleghi è l'unico, che legge ciò che scrivo, entrambi, dicevo, sembra che abbiamo trovato il nostro profeta in patria, nell'imbatterci in Abate Carmine da Carfizzi e nel riconoscere che se il profeta vale, prima o poi la patria lo accoglie e gli rende giustizia, merito.
La collina del vento l'ho divorata senza pensare, ma solo sentendo, immergendomi, e certo, appartenere ai luoghi descritti è un viatico non da poco, anche se un libro che vale può colpire benchè ambientato nei luoghi e nei tempi più sconosciuti e distanti. Ho accolto questo libro senza riuscire a staccarmene da una sola pagina o da un solo rigo, fino all'epilogo, come sempre più di rado mi capita.
Potrebbe essere, questo di Carmine (cittu cittu, anch'io gli do del tu), il libro della maturità, ma spero che sia uno dei libri della sua maturità, probabilmente il migliore finora. Il raggiungimento della maturità si legge -è proprio il caso di dirlo- nella pienezza e nello stile piano del rigo, una scorrevolezza piacevole, scevra da sbalzi e inutili scossoni: egli sa dove vuole condurre il lettore, avvincendolo nella trama, ma senza soffocarlo nelle spire del suo svolgersi ed evitandogli quella fastidiosa sensazione di smarrimento, di confusione o sconfinamento che troppo spesso ricorre in molti romanzi o racconti.
La saga degli Arcuri si dipana in maniera lineare, abbracciando all'incirca l'arco di un secolo, e in esso perfettamente calandosi. Noi 'naturali' di quei luoghi ne abbiamo visti e sentiti tanti, ma troppe volte non 'ridetti', di accadimenti come quelli semplicemente narrati da Carmine Abate. E narrati ricorrendo nella giusta misura al nostro dialetto, liberandosi da quel poco di allineamento sopra le righe a Camilleri che mi era sembrato di notare in qualche suo scritto, ma forse era solo affinità linguistica, e calandosi nella storia delle nostre contrade, e affidando loro uno spessore che non è solo narrativo, ma che è anche il valore della scoperta, dell'acquisizione, della presenza nella storia, e parlo di persone e luoghi, di Paolo Orsi, di Krimisa, di Umberto Zanotti-Bianco, ma anche di una Paternum che manca e che sembra quasi lì lì per essere nominata, e invece è infine condannata, come lo fu dalla storia, a una non-epifania.
Per la prima volta, credo, non traspaiono dal racconto le origini e le implicazioni arbereshe dell'autore,
autore che è comunque epigono di una genìa e suo rapsodo,  e qui diventa anche una sorta di ecista, un novello Filottete, fondatore di una Spillace che è una nuova Carfizzi, Karfici, e scopritore di una collina, il Rossarco, -nome bellissimo, tra l'altro,- che mi piace identificare con Madonna di Mare, la mia Madonna di Mare che ogni anno, nella seconda metà di luglio, continuo a fotografare, sperando forse in qualcosa che non so realizzare, o che non oso realizzare.
In questo libro Carmine Abate dice cose che tutti noi, motori accesi e rispenti 'targati Magna Grecia', avremmo magari voluto dire, e non ci siamo riusciti, o vi abbiamo rinunciato, per mancanza di fiducia o di un credo, o per sfinimento...vallo a sapere perché. E dice cose che stiamo dimenticando, come le storie e la storia che ancora sospingiamo, polvere che non si vuol vedere -o dare a vedere-, sotto il tappeto dell'oblìo. Lui, l'autore, ci ha creduto, in questo suo dono che è la scrittura, e ne ha fatto, credo di poter dire, una missione. E di questo, piaccia o no, coscienti o meno di ciò, noi dimenticati delle Calabrie, ovunque viviamo, non possiamo che essergli riconoscenti.
Ed io l'ho ringraziato, dopo ore di lettura, con un silenzioso Ah, gghegghiu fricàtu!!!, che lui senz'altro capirebbe.
(1)  PREGHIERA DELLA SERA
Signore, Tu vedi dove io sono giunto:
la strada era lunga
e le tue porte strette, così com’è scritto.
Come tu hai voluto, ho lasciato la casa,
ho preso il fagotto e mi son fatto mendicante.
Come tu hai voluto, ho varcato
montagne e fiumi, ho acceso
guerre, maledetto e benedetto,
assetato di verità, ho parlato
lingue straniere assieme a gente straniera.
Io forestiero tra la mia gente,
io uomo solo tra tanta gente.
Io vetro rotto, eppure specchio
di Te, che trasformi in vessillo un cencio.
Ora ch’è issato questo vessillo
sopra le cime dei monti sui quali
ripararono i miei antenati
e fischia il vento della mia sera,
a Te, Signore, affido il vessillo.
Ti prego  io che tante bandiere ho abbassato,
Ti prego io che per anni senza numero
più non ho potuto pregare.
Vedi: la lingua che non si scioglieva,
come quella di Zaccaria senza fiducia,
si scioglie (per chiamarti: o altissimo
o misterioso, o ineffabile,
con le parole morte degli avi,
rugiada benedetta, aspersa
sulle mie aride carte).
Giuseppe Gangale (Cirò Marina, 1898- Muralto, 1978).

sabato 1 settembre 2012

La Cervara.

La Cervara ripresa da Madonna di Mare , San Cataldo o '98'* (è la stessa cosa).





…e se violenti e procellosi spirano i venti da sud e da scilocco il sicuro ricovero è dalla parte contraria che dicesi Cervara. (G.F. Pugliese, Descrizione ed istorica narrazione dell’origine, ecc. Napoli 1849.)

  In quel tempo rimaneva come sospeso nei pensieri un luogo molto spesso irraggiungibile, per noi che eravamo i più giovani della compagnia.
  'La Cervara': per questa parte di Ionio fatto di litorali perloppiù sabbiosi, con lidi[1] quasi sempre o almeno in parte abusivi e dune e sbocchi di fiumare deturpati dalla presenza di macchinari arrugginiti per l'estrazione di inerti, per noi dicevo 'la Cervara' aveva qualcosa di mitico, già nel nome, con quel suono che richiamava un animale, il cervo, decisamente fuori luogo.
  Noi allora avevamo solo le mani, un costume da bagno e biciclette prese in prestito, ascoltavamo ammirati i racconti di chissà quali lupi di mare che 'di notte, alla Cervara…' riuscivano a risalire dalle profondità saline riportando creature marine dalle dimensioni mostruose: moscardini che diventavano piovre, saraghi che diventavano aggressivi palamiti, aguglie che diventavano barracuda, e squali di ogni tipo... quei poveri 'caniceddi'[2] da infarinare e friggere, un pesce che rassomiglia sì al pescecane, ma è come accostare il gatto e il leone, più o meno le stesse proporzioni.
  Naturalmente, nell'entroterra della Cervara, o più in là, verso Volvito, dove un tempo c'era una deliziosa stazioncina ferroviaria, letteralmente immersa tra gli eucalipti e la macchia mediterranea, senza una strada che la collegasse al resto del mondo, bene, da quelle parti si favoleggiava che si realizzassero gli incontri amorosi di questi giovani tritoni, allietati da chissà quali naiadi discinte...che noi, minori di età, immaginavamo con fervorosa immedesimazione.
  C'è di buono che eravamo così disposti a credere alla nostra immaginazione, che potevamo tranquillamente sorvolare su quanto ci veniva propinato, al punto che chi raccontava, dopo un po' parlava solo a sé stesso, mentre la nostra fantasia era già più avanti di qualche miglio.
  Il caldo che ci siamo sorbiti in quei tempi era esagerato, faceva sempre troppo caldo, anche al mare, sicché preferivamo rimanere sotto l'acacia davanti al bar di Antonij, proprio dietro la stazione: ce ne stavamo sempre lì, potevamo dare lezioni di portamento a ramarri e gechi per la nostra perfetta immobilità; ad un certo punto ci siamo accorti che un ramo della nostra acacia più ambita si era curvato ad immagine delle nostre collottole così affezionate a quella posa.
   Spesso ci domandavano cosa facessimo davanti a quel bar, perché non andassimo al mare, o –almeno la sera- alla marina[3]…Incredibile!!! Noi barattare la lettura dei prezzi della Coppa Rica o il controllo visivo di ogni minimo movimento d’anca o d’occhi con qualsiasi altra forma di movimento che non fosse oculare o labiale -intellettivo mi sembra troppo, troppo faticoso, volevo dire-…
  E poi, vuoi mettere il fresco del cemento sotto i piedi con la sabbia della spiaggia tra le dita, che vi si insinua a giugno e le abbandona non prima di ottobre?
  Alla chiusura delle scuole, le nostre vite si svolgevano davanti e dentro quel bar, non ci davamo neanche appuntamento: ci sapevamo, e se qualche volta abbiamo tardato, bene, si è trattato di un evento incontrollabile.
  Davanti a quel bar abbiamo udito cose che voi umani... delle stupidaggini assolute che, non so dire come, diventavano favole, miti, certezze assolute, nel regno del sentito dire, dove tutto era ammesso, concedendoci a vicenda di credere alle sciocchezze che ci inventavamo: sapevamo di favoleggiare, di cercare di ammazzare il tempo, inutilmente provando ad infilzarlo con fole e trovate: il nostro accordo, tacito ma inderogabile, era di credere ognuno alle invenzioni dell’altro, ben sapendo quale fosse il limite invalicabile, oltre il quale non avremmo dovuto osare, dove cioè cominciava il pericolo dell’invenzione. Le nostre non erano menzogne, ma sogni tirati giù a forza, in attesa di realizzazione.
  Disponevamo di così poco da poter confidare solo nell'intelligenza, o la sveltezza, la prontezza, l'intuito.
  Eravamo molto benvoluti, devo ammettere, tipici liceali senza una lira in tasca...ai quali prima o poi sarebbe toccato, a loro volta, inventarsi le storie della Cervara o di Volvito...ma quando mai, già quelli più piccoli ci sopravanzavano con una arroganza per nulla celata, con qualche motorino fiammante, qualche paghetta in tasca...
  E noi niente, indifferenti, immobili.
  Quando era il momento, o meglio, quando non se ne poteva più, ci incamminavamo fino in paese, proseguivamo alternandoci a piedi e in bicicletta, a turno, fino a questa mitologica Cervara, e già maledicevo i lupi di mare e -chissà perché- il Kalevala[4], forse pensando a cervi di Finlandia (già nominare la Finlandia in Calabria, in estate, è come fare una doccia gelata, ma insomma... anche se devo dire che Ilmarinen, nei miei balbettìi, non mi suonava neanche tanto male).
  Nicòl[5], ogni tanto, se ne usciva con qualche scoperta mirabolante: questa sarebbe stata la volta dell'inarrivabile 'Saetta B'!
  In realtà ci eravamo già armati di manici di scopa con forchetta o lama di coltello fissata ad una estremità, per le battute di pesca alla Cervara, per la nostra pesca d'altura a donzelle e violini  che, mal che vada, si rimedia qualche patella o riccio!
  Quel giorno, invece, Colìn arrivò entusiasmato da questa 'Saetta B', che aveva visto usare da un suo cugino più grande, Rafèl, e che altro non era che un piccolo fucile ad aria compressa  (esageravo: una specie di forchettone con tre o cinque punte, azionato da una molla) per la pesca subacquea: un sogno... già ci vedevamo scendere negli abissi e stanare cernie mostruose, risalire in superficie chiedendo assistenza per portare a riva l'animale recalcitrante; sì, potrebbe essere una chiave di lettura, o un ricordo lasciato riaffiorare con benevolenza...in realtà seguimmo Nicòl immergere a fatica la testa sotto il pelo dell'acqua, con le spalle che ancora ne affioravano, quando improvvisamente un urlo disumano ci fece sobbalzare e temere: Nicòl correva sulle acque e, relicta sagitta[6], indicava in preda al panico qualcosa in direzione del mare.
  Giunto a riva, ci lasciò capire che aveva visto un pesce enorme, un vero mostro, cercando intanto di calmarsi e invocando San Giorgio, non per il drago, ma per una abitudine che gli conoscevamo  (Ahi a Santu Giorg!!![7])
  Dopo un paio di minuti, sentimmo dalle labbra di uno sconosciuto bagnante sgorgare due labiali, esplosive come non mai, due lettere bi che annunciavano ‘’bbuono, iss è bbùon, ca' pummarola!”, e certamente avrà avuto ragione, poiché il grongo che stava portando a riva non doveva essere deceduto da tanto tempo, e non occorreva un patologo per capire che il pesce era caduto da una barca e magari qualche pescatore se ne stava rammaricando in quel preciso momento: il forestiero non si era neanche bagnato al di sopra della cintola, quel maledetto reggeva la testa di Oloferne[8] senza neanche sporcarsi le mani...
  In effetti, anche Nicolèdd aveva commesso un errore, di valutazione, di misura, per così dire, con l'acqua di mare che aveva riempito di paura la sua maschera alterando le proporzioni del mostro, e meno male che lo sconosciuto aveva recuperato e restituito anche la miracolosa 'Saetta B', tenendo per sé solo la salma del grongo dagli occhi da pesce lesso.
  Ci avviammo verso il paese, locchi locchi[9], che vuol dire 'piano piano e con la testa bassa', rimandando il racconto delle nostre gesta a tempi migliori, che in questo momento mi sfuggono.
marzo 2010


[1] Per ‘lidi’ si intendono gli stabilimenti balneari, e null’altro.
[2] Caniceddi’, in italiano significherebbe ‘cagnolini’, e la traduzione sarebbe semplicemente perfetta, da pesce-cane a pesce-cagnolino: si tratta di una varietà molto diffusa e di prezzo non eccessivo, perloppiù destinata a larga padella (‘fressùra ranna’) con abbondante olio.
Ad ogni modo, se non vado errato, dovrebbe trattarsi del pesce noto come 'canesca', 'galeorhinus galeo', appartenente all'ordine 'carcharhiniformes', cioè...pescecani!
[3] Quello del ripopolamento dei litorali ionici della Calabria, con la formazione delle ‘marine’, è un fenomeno per il quale rimanderei a ‘Formazione e sviluppo di Cirò Marina’, della professoressa Maria Luisa Gentileschi, in ‘Studi Meridionali’, Roma 1970.
[4] Se ben ricordo, dovrebbe trattarsi del paradiso dei finlandesi: l’ho appreso dalla ‘Clessidra’, la mia amata antologia delle medie.
[5] Nicòl, Colìn, Colinèdd… vorrei tanto avere la preparazione -e sufficiente intelligenza- per scrivere qualcosa a proposito dell’uso degli alterativi nella onomastica dialettale; è, questo uso degli alterativi, da non sottovalutarsi: con un semplice tocco, un passaggio da ‘Totònn’, ad esempio, a ‘Totonnèdd’, o a ‘Totonnùzz’ si dice tanto della condizione e della situazione affettiva e sociale del nominato, ancor più se ad esempio si passa da ‘Totònn’ a ‘Tònij’ e da ‘Totonnèdd’ a ‘Toninèdd’…sempre di un Antonio si tratta, ma dentro e dietro all’uso dell’alterativo c’è tutta una concrezione secolare, che non impedisce l’immediatezza della scelta del nome. Insomma: si tratta di una scala classificatoria, per censo e affetti, molto estesa, che in italiano non mi è dato di riscontrare. O di intendere.
[6] Non so se qualcuno ha pronunciato prima di me queste due parole, ma mi piacevano, come ‘rupto corpore’, quella era la rana che era schiattata, qui è ‘abbandonata la saetta’…ma quasi quasi vorrei dire ‘sparse le tracce’, tanto, sempre di accusativo alla greca si tratta (o no?!)
[7] Anche nelle imprecazioni vale un po’, ma solo un po’, quanto detto alla nota 5.
[8] Mò, non andiamo troppo per il sottile che Giuditta era femmina e il bagnante simil-napoletano era maschio…
[9] E’ uso corrente presso i ‘naturali’ di Cirò, e sua Marina, raddoppiare l’aggettivo o il sostantivo, sia nella formazione del superlativo (‘rannu rannu’ per ‘grandissimo’) sia nella realizzazione, p. e., del complemento di moto per luogo: ‘a ruva a ruva’, ‘per le strade del rione’, ‘a casa a casa’, ‘per casa’, o nell’espressione del modo: ‘loccu loccu’, ‘quetu quetu’, ‘a rasa a rasa’…eccetera (eccetera).

*98 significa km 198 (è abbreviato per gli amici...) della linea ferroviaria Taranto-Reggio Calabria C.le, la favolosa 'jonica', che tocca anche Medellìn, Cali, o forse Cartagena e Barranquilla, ma di sicuro, e solo volendolo, sfiora e accarezza  tutte le/i Macondo che non si staccano dall'anima...
** nel testo ci sono degli errori e delle inesattezze, non darti pena, mio unico lettore/passante: li lascio così, sono le cose che mi vengono meno peggio, gli uni e le altre e poi... mi divertono!