martedì 30 ottobre 2012

tra le case

tra le case, i vuoti
bordure d'aranci
e piante gravi d'umori
ché non le regge, a crescere, altro luogo

cancellate, sconnessure
e un miraggio lieve
di mare tardo
di arrivi demandati ad altri lidi
poi  tetti
a segnare, aguzzi
un limitare di distanze,
e autunno che avanza
paradigma di decadenza
e d'ombre, stanche:

manca un sorriso, dalle cortine al labbro
che segni un rigo d'infinito
o d'orizzonte,
quasi.

domenica 28 ottobre 2012

oltre le nuvole, azzurro

oltre le nuvole, azzurro
un rigo d'orizzonti
un chiarore che segnala
presenze ed ali, sommuovono un fondo
sinopia alle stelle, quiete, lente, verranno
occupando caselle

cosa tocca in fondo del mare,
una cornice sbilenca che insiste
ed arranca, una pinna in sussulto
argentea, caudale?

ma si spengono dunque
i focolari in fondo alle sabbie
si accendono i suoni nell'aria:
un cielo di perla socchiude le valve
è già notte, di toni calanti e di grigio
un abbraccio, quasi un filo che unisca
di fumo.

pensieri annessi alla poesia, I

...ma forse non esiste nemmeno, la poesia, e i poeti sono un'invenzione, l'ammissione di una incapacità di fondo a riconoscere che la vita, in ogni sua forma, è poesia: uno stadio dal quale ci si è irrimediabilmente allontanati, fino al distacco definitivo...i poeti, riconosciuti o mimetizzati che siano, sarebbero dunque i deputati allo svelamento di questa condizione, più o meno da sempre, dai graffiti delle grotte fino alle sperimentazioni più attuali ed estreme; la poesia (soggetto), a ben guardare, non si nega a nessuno; l'arte poetica è altra cosa: segue al sentire e presiede alla elaborazione del testo; la poetica è il canovaccio che il poeta crede o si impone di aver riconosciuto come catalizzatore per il proprio 'modus operandi poetico', ed al quale vorrebbe attenersi, ma non sempre o possibilmente.
Si è tutti poeti, questo ho sempre creduto e ritenuto possibile, e questo stato dell'essere e del sentire prescindono, ove e quanto possibile, da qualsiasi condizione: esiste una poesia silenziosa, come quella che mi sembra di cogliere nello sguardo di Nerina, la mia gatta, quando guarda la pioggia attraverso i vetri, o come nei gesti di ogni altro essere, -umano o meno che sia-, non in grado di tradurre in una qualsiasi forma- per mancanza di mezzi- questo sentire: l'india analfabeta che allatta la sua creatura, il gatto che trasporta il piccolo per la collottola senza recargli danno, non sono già realizzazioni poetiche? un fiore che si apre, un cielo che cede al tramonto, non sono di per sé stessi realizzazioni poetiche? cosa sono la pioggia o una nuvola, un bacio, una carezza, i sensi che si liberano?
il poeta, l'acculturato uomo fatto, tutto questo, anzi anche questo, vorrebbe avere l'ardire di cogliere e rielaborare...non è poca cosa, e mai vorrei dirmi 'poeta', ché esserlo, invece, quello sarebbe altra cosa, e saltuaria, come è giusto -o come ritengo normale- che sia. Quindi, non corazzarsi di poesia, né di titoli poetici, e non mostrarsi più deboli, delicati, gentili in virtù di una capacità di sentire che è solo una concessione alla autocelebrazione: anche scrivere da decine e decine di anni, anche quello significa poco e niente, conferisce esperienza, di certo, ma un felice esordio è altra cosa, e poi, i tempi li detta la poesia, non il suo esecutore materiale.
Fine del primo pensiero: mo' vado ad intingere un pezzo di pane nel sugo, che per le papille è qualcosa di molto poetico, mentre lo è un po' meno per le gengive che sento già irrigidirsi solo all'idea, e vabbè, si mettessero d'accordo, mica posso spegnere la macchina...(Lo so, i poeti non dicono queste cose; forse non mangiano nemmeno, o lo fanno solo quando nessuno può vederli).

venerdì 26 ottobre 2012

'si è brevi' (abbozzo)

'si è brevi',
e  scompari
con un fare d'airone
che ti so, e non sai

sei sola
e una porta ci occlude
sei isola
e non curi delle coste sguarnite
né del freddo di agguati

'si è brevi'
come le parole che ho sfilato
da un tuo rigo straziato, da uno sguardo, o poco più,
negli occhi che non crescono
ché nacquero da grandi
a precedere un corpo che non basta
poi che già l'anima era oltre il dolore
e il freddo delle soglie, indifese

ci somigliamo, come due gocce pazze d'acqua
in rotta dall'arsura
se rigiro tue parole di bambina
e il mio glossario è muto
di padre duro, o forse
di spiga che declina,
che mi sai, e non so.



mercoledì 24 ottobre 2012

attesa e stelo

sarà il gorgo e la terra
il peso che sapevo
fragile
tu posi ed è dono
accoglierti
ora che linfa, dirami

tornerai, in prestiti di foglie e fiumi
e sarà l'orlo, il bicchiere e la terra
non pensare il tuo peso
è foglia, ed oro, infinitesima,
attesa e stelo.

luci attese, accese, rispente (petali e steli)

luci attese, accese, rispente

il ramo accede, cauto, lento, pesando
alla terra

l'orma, più a fondo, silente, raccoglie, compone

il passo del tempo ha forme segnate
un lieve delirio concede al volere
ma non posso
che unire, assidua mente
petali e steli
fin che l'orlo, o il bicchiere.

lunedì 22 ottobre 2012

tu eri, adduv eri... (con audio)

Tu eri, adduv eri...                                                             
a pigna, 'nta chir 'e Naty
i cim spunnùt, i man scoràt
morta 'nterra, nu gigant ammutàt

tu er, adduv er...

Mi dàvin foch, stanott
arret u mur, appicciàt
dduv vrusciàvin i parol di 'nnammuràt
cada, un cada...
nu rimmagg
'e siren, luc addumàt, gridàt

u dolor s'è mmiscàt ccù l'occhj da  mala gent
mi guardavin calar
com lign 'e tavut, ma viv, 'nta sa fossa
l'òmin ca dìcin ca tutt passa
ma unn è daver
'e mi sul u ricord resta, fin ca pozz
abbrazzar l'ach mej, a faccia 'nterra

ca già, prim e mì ci sù passat i sor mej
chira 'e Sabatìn, e l'atra du casell
sutterrat sutt i  salùt e i cartolìn...

Tu eri, dov'eri...
la pigna, in 'quel di Naty'
cime posate, mani bruciate
morta a terra, gigante muto

tu eri, dov'eri...

Mi davano fuoco, stanotte
dietro il muro, acceso
dove bruciavano le parole degli innamorati
cade, non cade...
un tramestio
di sirene, luci accese, urla

il dolore frammisto agli sguardi della cattiva gente
mi guardavano calare
come legno di bara, ma viva, in questo avello
gli uomini che dicono che tutto passa
ma non è vero
di me solo il ricordo resta, fin che posso
stringere i miei aghi, a faccia in terra

che già, prima di me le mie sorelle lo han sofferto
quella di Sabatini, e l'altra del casello
sotterrate sotto saluti e cartoline...

Di questa estate che mi sono fermato a soffrire la vista di una pigna gigantesca, bruciata e abbattuta -violentata a morte- all'interno del bellissimo e diroccato 'Casino dei Naty'- pronuncia 'Natì, antica famiglia del mio paese, come i Sabatini, il cui nome è legato inscindibilmente al 'Castello Carafa', ovvero 'Castello Sabatini'; al casello nel cui cortile crebbero due pigne meravigliose dovrebbe essere legato il nome della mia famiglia. Senonché tutto passa, come dicono gli uomini, o le pigne violate.



ti sfioro ancora

ti sfioro ancora
o sfoglio
non entri
ché le porte son chiuse
e per sempre gelo
s'è fatto
il respiro s'arresta e lo specchio
sentenzia un addio

lo so, anch'io morirei pur di vivere
e tu, un sorriso, un rigo appena, poesia.

tu tuppìj (appunto da scartare); con audio


tu tuppìj, a chiss'ura d'a notta                                 
e mi chjam cor, coru chjagàt
o mi scigh, com 'na carta,
tu c'un saj si scampa, o chjova

tu ca riminji 'nta sacca 'na curpa amara
'e lantru mazzicàt
tu ca dici e ca 'mpar ai figghj tò ccù l'occhj stritt
tu c'un za campàr ...

ti rispunn e sugn
ji,  u coru  toj ca vatta
e sonna sutta l'occhj
je sugn
a mana c'accarizza
e asciuca l'occhj, i parm
lassàt vacànt o senza funn
si lacrim sù acquatina e pàrin carìzz
e 'mmec
'mmec sù nu puzz senza luna..


tu tocchi, a quest'ora di notte
e mi chiami cuore, cuore piagato
e mi strappi, come una carta,
tu che non sai se piove o è secco

tu che rivolti nella tasca una colpa amara
come di oleandro masticato
tu che dici e che insegni ai figli ad occhi stretti
tu che non sai vivere...

ti rispondo e sono
io, il tuo cuore che batte
e sogna sotto le palpebre
io sono
la mano che carezza
e asciuga gli occhi, le palme
lasciate vuote o senza fondo
se le lacrime sono rugiada e sembrano carezze
e invece
invece sono un pozzo senza luna.

domenica 21 ottobre 2012

Ah, coru chjagat (abbozzo)

Ah, coru chjagàt, c'u mmal ca pè ti ciàncir
l'oss* e i jurn,
cor ca vatt nti tremp com na cunnànna
sira ca si sagghjùta all'occhj
com acqua 'nta na roggia
com nu ronzu mutu ch'è scurrùt
e m'ha lassàt sul vroch
'e ghjòmmir sciunnùt, nu filu
long, long e nìvuru, fuijùt...

Ah, coru chjagàt, ca rid e ciànc
e un zi capìscia
si chjòva
o scampa*.

Ah, cuore piagato, che non servi che a piangerti
le ossa e i giorni
cuore che batti nelle tempie come una condanna
sera che mi sei salita agli occhi
come acqua in una pozza
come un rigagnolo muto ch'e trascorso
e mi hai lasciato solo anse
di gomitolo svolto, un filo
lungo, lungo e nero, sfuggito...

Ah, cuore piagato, che ridi e piangi
e non si capisce
se piove
o smette.

* 'Ciàncir (si) l'oss' è patetico, tradotto in italiano, ma è espressione normalissima di un pianto profondo e complessivo; non esente, in verità, da un pizzico di condanna: dipende dal contesto, come un tempo si usava dire.
* 'Scampàr' è, propriamente, 'spiovere'.

venerdì 19 ottobre 2012

mìtiga una luce

mitiga una luce
il chiuso di mille porte
viene da un altrove di mani aperte
di cielo amato, a ritroso
una sera che sa di carezza o attesa
rara ed estrema, spera
di un sole ignaro quasi
è il tempo che un sorriso
s'apre, o sfiora,
e già si chiamerà, o ricordo.

mercoledì 17 ottobre 2012

i silenzi si volgono

i silenzi si volgono, informi e pure,
 umani
essi sono, già percorsi
nelle vene
sono nelle braccia
tese, abbandonate, levate
nelle vie oscure di guaine, e fibre
forti
ché le mani, da sole
si sarebbero arrese
nelle nocche ormai, inoperose
segnate dal tempo, pendule

sono i rami abrasi di nostalgie
le chiome d'ombre, stormenti di sussurri,
approdi a rondini e tronchi addossati ai muri
linee di paesaggi
muti sguardi
solide radici

un tempo pagano, incantatore
d'avvolte lire
eppure splendide
risuona...

PS: peggio che andar di notte!

nello stesso luogo posano



Nello stesso luogo posano
il silenzio e i sogni
un colle di vento
i mirti e gli allori, recisi

Ritornano parole
quelle che sapevano alle labbra
ed ora…
vedi il segno che ha inciso
il rivo
scende come irriverente
a balzi, e fioriture
si ricomporranno
o sarà un graffio
sulle pendici glabre

e nell’alto le antenne, levate

ché fui, in un luogo e in un tempo di cristallo

La ‘Motta’ è nell’anima, intatta
ed elci, e sambuchi, mobili indizi
segnalano un approccio, un’orma
o traccia

Ma il folto, il folto è perverso
è nero a tingere, è  anima dispersa
attira
e il fondo prende, agli occhi
un male nero di melanconia.

*La 'Motta' è una collinetta, nient'altro, non è nemmeno segnata sulle carte. 
Dopo questa dovrei proprio chiudere...





venerdì 12 ottobre 2012

Giovan Francesco Pugliese

Cosa ne farò e ne sarà di tutte queste ore che da mesi dedico alla lettura e al controllo dell'opera storiografica di Giovan Francesco Pugliese (1789-1855) non lo so e non saprei dirlo...Aspetto che 'la cosa' maturi, nel senso che aspetto di capire infine perché sto scavando nelle mie radici e nelle mie origini. Non aver reperito i due volumi di cui parlo in tempo per leggerli con mio padre (anzi: con papà) mi spiace, mi duole e mi sa anche un tantino di scherzo del destino: credevo fossero irreperibili, e invece bastava andare a cercarli su Google Books...L'ho anche segnalato ad un quotidiano on line del mio paese, e mi avrebbe fatto piacere che una sola persona, anche una soltanto, avesse dato un cenno di gioia per questa  'scoperta', o possibilità, per giunta gratuita, da condividere.
La 'cosa' alla quale sto lavorando, o meglio 'che mi sta impegnando', comincia così:


A proposito di Giovan Francesco Pugliese mi piace premettere alla sua opera questa nota, tratta da ‘Biblioteca storica topografica delle Calabrie’, dell’Avvocato Niccola (sic) Falcone da Verzino, Napoli 1846.


La patria di questo benemerito e dotto scrittore è Cirò di cui ora è unica attuale illustrazione. Egli professa giurisprudenza, e benché di proposito non la eserciti, pure adopera la sua dottrina dando consiglio a coloro che in difficili affari ne lo richieggono, renden­dosi in questo modo utile alla sua patria, ed ai paesi circonvici­ni. Egli nel 1826 pei tipi del Tiziano in Napoli rese di pubblica ragione un ‘Compendio sulle attribuzioni de’ regi Giudici’: lavoro molto utile per i forensi. Ha scritto la storia di Cirò, della quale fa sperarne la pubblicazione. Io mi auguro ciò voglia verificarsi pria che io riduca a termine la stampa di questo mio lavoro, perché abbia l’occasione di esporre un’opera che sarà certo di molto merito e gradita ai cultori della storia. E se il sig. Pugliese vo­lesse ancor più soddisfare i voti di tutti, pubblicherebbe il suo ‘Itinerario da Squillace a Napoli’, lavoro senza dubbio dottissimo, precisamente in fatto di archeologia. Possano dunque tai voti essere esauditi, ed io ne porgo all’autore le più vive preghiere.
                                                         ***********
La prosa, la ‘scrittura’, del Pugliese, differiscono dalla attuale anche nella loro ‘resa grafica’, per così dire: delle occorrenze più evidenti riporto l’uso dei due punti in luogo delle virgole e delle iniziali maiuscole nel corpo del periodo. Anche nella coniugazione verbale vi sono degli esiti che attualmente risultano come ‘errori’: non ho avuto l’ardire di applicare la grammatica e l’ortografia correnti, ovvero di correggere od emendare, il testo originale, poiché ritengo che tale originalità vada sempre e comunque, almeno in certa misura, rispettata, e che l’onere, ma anche il piacere, dell’interpretazione rimangano a carico del ‘lettore moderno’. Quelli di cui sopra sono rilievi ininfluenti, ché l’opera di Giovan Francesco Pugliese è di primaria importanza per la storiografia non solo di Cirò, ma anche della Calabria e del Sud più in generale, divenendo fonte cui attingere per tutti gli storiografi locali- ma non solo-, improvvisati o meno che siano; a maggior ragione quando si parla di territori le cui ‘memorie’ -leggi soprattutto archivi- sono stati spesso, e non a caso, saccheggiati o distrutti, fatti oggetto di ‘cesìna’, come forse direbbe il Nostro.
                                                           ********************

   Occorrerà anche premettere, forse, che per gli abitanti di Cirò e Cirò Marina è ovvio, scontato, almeno sapere che nei pressi di Punta Alice esistette una colonia greca chiamata Krimisa o Cremissa, dalla quale sarebbe poi sorta Cirò, e infine Cirò Marina. Questo è, nell’immaginario collettivo ‘locale’, supportato dagli scavi dell’archeologo trentino Paolo Orsi, grande e ostinato nella sua ricerca della Krimisa magnogreca che le paludi, l’incuria, i saccheggi, avevano cancellato alla vista degli uomini. L’impegno di Paolo Orsi fu premiato nel 1924 con il ritorno alla luce dei resti della città-santuario di Krimisa e del suo Templum Apollinis.
   Al tempo di Giovan Francesco Pugliese la situazione era alquanto diversa: i ritrovamenti archeologici si riducevano a ben poca cosa, e l’esistenza della colonia greca si basava soprattutto su fonti letterarie e librastiche più in generale…Verrebbe da dire che si trattava quasi più di un atto di fede nella storiografia che di verità storica accertata, scientificamente provata.
   Non a caso l’autore, già dalle prime battute della ‘Descrizione’, parla, quasi chiedendo venia,  di una sorta di ricorso alle origini molto,  troppo,  favolose e favolistiche, non solo della sua amata e sognata Krimisa, ma di tutte le altre località della Magna Grecia, nel ricordo e nel richiamo ad un passato grandioso che non trovava, e non trova, riscontro alcuno né ai tempi del Pugliese, né in quelli attuali.
Quella Magna Grecia che faceva dire all’altro cirotano Luigi Siciliani (1881-1925), il traduttore dei poeti erotici dell’antologia palatina:
Hera ed Apollo non sono signori di templi sui flutti
Dileguarono insieme per sempre gli umani e gli iddìi.
Cupo squallore, miseria profonda ci aduggia da allora!
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.
(Capo Crimisa, in ‘Sogni pagani’, poi in ‘L’altare del Fauno’).
P.S.: lo so già che non me ne farò nulla, che improvvisamente dimenticherò tutte queste ore con il collo che mi fa male e gli occhi che mi sfarfallano...

lunedì 8 ottobre 2012

A richiesta, mi spiego.

Bella Muro.

notte di bella, muro
di pianto agli occhi, cento porte
il giovane sa che non riuscirà a dormire, forse dovrebbe, più tardi magari, la notte è quella di sempre, è solo il viaggio ad essere lungo, da sembrare interminabile, ma a lui, in fondo, non dispiace più di tanto: si perde negli sguardi degli altri viaggiatori, come lui silenziosi, e insegue le luci delle case, degli abbaini, delle piccole finestre sperdute nelle masserie lontane, che occhieggiano quasi come lampare, in un mare di grano: nel nero della notte incute quasi timore lo stormire ordinato delle spighe...si perde nei pensieri e nelle paure, in qualche modo vorrebbe afferrare dei desideri, ma la soglia, l'asticella, si alza sempre, fosse appena e solo di un dito...
e un viso nel viso
le mani strette nelle mani
il treno si è fermato, ha appena il tempo di abbassare il finestrino, quelli di un tempo che si bloccavano con la maniglietta con istoriato un ''libero/fermato'', legge Bella-Muro, qui non si usa annunciare i treni, la stazione, le fermate: un urlo lacera la notte, quasi a tirare giù le stelle, due donne in nero scendono dal treno, con loro sembra che la Lucania urli di dolore dal sottosuolo, per una morte giovane, di padre, marito, fratello, capofamiglia, figlio, uomo...
e la lucania urla
il nome del padre s'apre nell'aria
come un solco, di coltro a fondo
il giovane pensa al gruppo marmoreo del Laocoonte, osserva la perfezione disperata di quei due volti di donna, accolti da altri volti segnati, occhi e mani giunti a sostenere quell'arrivo...
quel nome s'avanza nell'aria, come nel solco della terra dal quale ha tratto vita per sé e la sua famiglia....ora quel nome affonda nello stesso solco, come l'aratro...

le due donne svaniscono e il grano
stormisce, nero di locomotiva
la stazione è un punto
lo doppia, unico
un binario che non sconta
come un pensiero
fisso
tutto è durato pochi minuti, in quella sosta sull'unico binario che sembra un pensiero fisso, partenza, arrivo, e quel che rimarrà del viaggio, perché esso stesso abbia una funzione e un luogo, perché si faccia sedimento...

un rumore di scambi, una scossa
sono terre di passo
nelle mie terre antiche ho perso
i templi e i tufi che incidevo a dita
il giovane ripensa all'episodio al quale ha assisitito, e a quelle terre di passaggio, terra di migratori, di remiganti, di ali fragili, immagina i templi di Metaponto, le Tavole Palatine di là da Potenza, dove dicono si respiri un'aria finissima, rarefatta, per queste latitudini quasi andina...e i tufi quasi d'oggi, fragili...sarà questo che sta attraversando?

non rimane che cemento sulle rive
armato, attento.
racconterà del viaggio, all'arrivo...intanto pensa a ciò che lo attende, a quella devastazione di cemento, armato e attento a non concedere nulla: dura, la sua terra lo attende....

E' un ricordo che non mi ha mai abbandonato, l'urlo straziante e straziato di due donne che scesero dal treno nella stazione di Bella-Muro, in Lucania, una notte di non so quanti anni -decenni- fa. Ci sono morti che non finiscono mai, nelle case come nei ricordi che ne sono in parte la rappresentazione.
'Cento porte' sono le carrozze sulle quali abbiamo viaggiato in tanti; il coltro è una specie di coltello che si trova tra il vomere e l'animale che trascina l'aratro.

domenica 7 ottobre 2012

Bella Muro.

notte di bella, muro
di pianto agli occhi, cento porte
e un viso nel viso
le mani strette nelle mani
e la lucania urla
il nome del padre s'apre nell'aria
come un solco, di coltro a fondo

le due donne svaniscono e il grano
stormisce, nero di locomotiva
la stazione è un punto
lo doppia, unico
un binario che non sconta
come un pensiero
fisso

un rumore di scambi, una scossa
sono terre di passo
nelle mie terre antiche ho perso
i templi e i tufi che incidevo a dita

non rimane che cemento sulle rive
armato, attento.

E' un ricordo che non mi ha mai abbandonato, l'urlo straziante e straziato di due donne che scesero dal treno nella stazione di Bella-Muro, in Lucania, una notte di non so quanti anni -decenni- fa. Ci sono morti che non finiscono mai, nelle case come nei ricordi che ne sono in parte la rappresentazione.
'Cento porte' sono le carrozze sulle quali abbiamo viaggiato in tanti; il coltro è una specie di coltello che si trova tra il vomere e l'animale che trascina l'aratro.

lunedì 1 ottobre 2012

foglie

sulle sue labbra
mi doppia
il segno del respiro

è un gioco di bambino
tenermi tra le dita

pure è costrizione
al sibilo, al piacere, al lamento
questa ricerca del mio suono
stridente

non lasciare che cada, dalle labbra
non ancora
anche noi siamo, esitanti
creature d'acqua e verde

pure, poserò dove il vento
o l'aria vorranno
lontano dai miei rami
dai fiumi che ti dico
guarda
dall'altra parte del mondo non si vede
da una sponda all'altra
e forse solo gli occhi o le mani
si sanno
dove finisce la corrente
e ricomincia
lento
il rigore della terra, e le ripe.

Di un infantile gioco, di tenere tra le dita una fogliolina e capirne, quasi suggendoli, dei suoni.
Qualche volta arriva un benevolo commento: ve ne ringrazio e spero non vi dispiaccia se li tengo per me.
Cat.