giovedì 30 gennaio 2014

Lorenzo Calogero, ' lo strano poeta' di Melicuccà.



Lorenzo Calogero, anzi 'il calabrese' Lorenzo Calogero (dire che uno è calabrese non è una semplice 'indicazione di provenienza'), 'lo strano poeta di Melicuccà' (anche dire 'di Melicuccà' non è come dire 'born in London', per quanto anche Calogero fosse nato da una 'well to do family', come recitano spesso le storie della letteratura inglese), è stato a mio modestissimo parere uno dei poeti più 'totali' della letteratura italiana, un personaggio scomodo e indifeso, a volte forse anche indifendibile, sul quale quasi tutta la critica ufficiale ha preferito 'sorvolare', glissare, e comodamente ignorarlo. Calogero rimane ignoto ai più, nemmeno la sua follia è valsa a fare di lui un 'must' alla Dino Campana; ciò è comprensibile, per tanti motivi, non ultimo le origini di Calogero, il suo provenire da un angolo sperduto di Calabria di inizi '900.  Calogero ha conosciuto Villa Nuccia, e spero di spiegare a cosa mi riferisco segnalando che, fino a non troppi anni orsono, il nome di questo ospedale psichiatrico veniva evocato per lanciare bestemmie e maledizioni... LC non scriveva bene, sono convinto che non scrivesse come avrebbe desiderato, e che a volte lo facesse per attenuare il dolore di esistere; nei suoi versi si ripeteva spessissimo, e non vedo come avrebbe potuto evitare di farlo, come avrebbe potuto sottrarsi alla sua ossessione se non cercando di farla uscire dal suo corpo, dalle sue mani, dalla sua testa. Possono non piacere i risultati della sua scrittura, ma rimane un esempio - forse da non seguire - di aderenza fisica tra visione poetica e poeta-strumento; nell'esistenza di Calogero non c'è, pare di capire, interruzione, cesura, tra il 'murmure' che gli parla e la vita di tutti i giorni: lui si è dato una missione, si è scoperto poeta ed è rimasto fedele a questa sua condizione fino al sacrificio estremo: è stato, il suo, un suicidio protratto, uno stillicidio quotidiano in parole e visioni. E' quasi superfluo domandarsi se l'atto finale sia dovuto a suicidio o morte per così dire 'naturale'. Era un medico, magari suo malgrado, ma comunque medico, e come tale sapeva bene a cosa stesse andando incontro. Non ci vedo un disprezzo della vita, ma una ricerca spietata di quello che desiderava di più, la poesia come forma di vita, giusto o sbagliato che fosse. Sto parlando per supposizioni, forse anche per immedesimazione, magari non c'è nulla di vero in quello che dico...
La poesia di LC è espressa sotto forma di congerie, così la leggo: immagino che questa 'musa' irrinunciabile lo abbia 'abitato', si sia installata nella sua mente come un prepotente, inarrestabile 'tinnitus', come gli acufeni che fanno udire continuativamente un suono, un rumore, un ronzio, un sibilo, il suono di una sveglia, o non so cos'altro di non ricollegabile a un fenomeno acustico, a qualcosa che proviene dall'orecchio, ma che è dentro la testa, una presenza 'sonora' difficilmente evitabile, razionalizzabile, curabile. Anche questo è la maledetta poesia, quella contro la quale si può scegliere di ergere una barriera, di piantare dei pali, di levare degli scudi, di improvvisare difese quali che siano. O rassegnarsi magari a scriverla, sempre con quell'amaro in bocca, quella insoddisfazione che risiede nel divario mobile tra la totalità dell'interiore epifania della visione poetica (l'apparizione di quello che si prova) e ciò che si riesce ad esternare, a portar fuori da sé: l'escissione dal proprio sentire della parte poetica e dolente, il frutto e l'offerta. Direttamente proporzionale alla totalità del sentire deve essere la forza dei mezzi a difesa di se stessi. Credo che un accorgimento, una consequenziale decisione del genere sia mancata del tutto allo strano medico e poeta di Melicuccà. Certo avrebbe scritto cose bellissime, abbordabili, musicali, da antologie scolastiche, pezzi orecchiabili senza infamia e con qualche lode stiracchiata, se solo avesse voluto, potuto o deciso di fare così, cioè di non essere quello che veramente fu: un poeta totale, vittima del suo stesso sentire, una preda privilegiata della parola. Vittima ma anche protagonista di poesia, di personalissima vita nella poesia, che deve essergli costata una lotta titanica e di conseguenza disperata. Leggere LC senza sapere della sua vita credo sia sforzo del tutto inutile. Non leggerlo potrebbe essere invece un utile disinteresse, come dire?... non sapere può giovare.
Oggi mi sono capitate tra le mani, nella stessa forma di altre carte che intendevo eliminare, i fogli a stampa con l'opera di LC, che non ho mai veramente letto, come mio solito, ma che mi ero procurata pur sapendo che non me ne sarei fatto nulla. Conservo quelle carte in quanto, una estate di qualche anno fa, decisi che non era giusto tanto oblio per l'opera di LC e quindi, con mia grande sorpresa, rinvenni, in una biblioteca situata a queste latitudini, i due volumi dell'edizione Lerici e mi risolsi a farne le scansioni, pagina per pagina. Io non so se ho compiuto una operazione illegale, spero proprio di no, e spero di non farla ora, questo qualcosa di illegale, postando la 'premessa' di R. Tedeschi al primo volume dell'opera completa, che tale, a dire il vero, non fu, poiché la pubblicazione si interruppe: ne rimangono, fuori commercio, i primi due volumi dalla copertina rossa; nella biblioteca dove raramente mi reco, ristanno, impolveratissimi, spalla a spalla con Pessoa. Sono libri molto belli, proprio come quelli di un tempo, dalla copertina telata e monocromatica e dalle pagine spesse. Ai miei tempi, li avrei senz'altro macchiati dell’olio col quale bagnavo il pane e lo zucchero. Ora, invece, prima di leggerli me ne laverei le mani...
Quella che segue è la prima parte della 'Premessa'.

   Arrivai nello studio di Roberto Lerici, a via Santa Tecla, stanco e sfiduciato da molti mesi di propositi e di proposte inutili. Non sapevo più se parlargliene. Forse non bastano questi versi, pubblicati su una rivista, a convincerlo, pensavo. Gli dissi di leggere, e dalle sue reazioni quasi immediate capii che, forse, avevo trovato un editore per Calogero. Gli raccontai qualche episodio della sua vita e della morte, il suo entusiasmo crebbe. Gli lasciai «L'Europa Letteraria» ripetendogli di leggere meglio tutto: i versi, la presentazione di Sinisgalli, la mia nota sulla sua figura. Ripartii. Dopo due giorni Roberto Lerici comparve a Roma, cercò me e Sinisgalli per confermarci di voler prendere subito tutti i diritti per la pubblicazione. Partimmo, Roberto Lerici e io, in aereo per Reggio Calabria dove i fratelli di Calogero ci attendevano. Raccogliemmo le sue carte, i suoi quaderni, i suoi appunti: una produzione enorme. A distanza di meno di un anno da quelle calde e intense giornate di giugno 1961 ecco che il primo vero libro di Calogero vede la luce. A Roberto Lerici ne va il merito maggiore non solo come editore ma anche e soprattutto come curatore. Non è molto un anno di preparazione per un autore come Calogero: la sua produzione enorme, il fascino lirico e umano dei suoi versi che ci ha più volte tentato di imporlo come « caso letterario » prima che come l'episodio di alta poesia che è, il dubbio se fornirlo di tutto l'apparato biografico-epistolare, altamente suggestivo, di cui venivamo in possesso o se affidarlo al solo messaggio dei versi, le molteplici difficoltà della trascrizione, la sistemazione dei manoscritti, hanno fatto passare molte giornate. E’  stata un po' la ripetizione delle vicende che in Francia sorsero intorno all'analogo caso del poeta alsaziano Jean-Paul de Dadelsen che, morto assolutamente inedito a 42 anni nel '57, dové essere considerato e riconsiderato infinite volte, prima che, riscoperto da Albert Camus e da lui considerato uno dei maggiori contemporanei poeti francesi, fosse accettato da Gallimard.
Da vivo, Calogero, implorò anche il più piccolo riconoscimento per la sua poesia, cui aveva sacrificato tutto, anche la vita, destituendola di anno in anno sempre più di ogni valore, di ogni dignità, di importanza. La poesia fu l'unica aspirazione di Calogero, i riconoscimenti che essa avrebbe potuto dargli, il massimo da chiedere alla vita. Per la poesia Calogero ha consumato tutto, il suo fisico, il suo cuore, il suo intelletto, fino alla menomazione e alla follia.
Certamente la follia e la morte lo possedevano già per intero quando verso i primi giorni del mese di novembre del 1960 si avviò a Roma alla ricerca di un ospedale e di un ricovero o alla ricerca di una dilazione alla morte. Si presentò di buon mattino in via del Sassoferrato 6 a chiedere aiuto al suo unico vero amico, Sinisgalli. Aveva viaggiato, forse, tutta la notte da Reggio Calabria a Roma, insonne e malato in uno stretto scompartimento di seconda classe per essere all'alba a Roma e per presentarsi, subito, con la ingenuità o l'incoscienza o la follia dei puri, a casa dell'amico Sinisgalli. Sinisgalli era già uscito, gli dissero di raggiungerlo in ufficio, a via Tevere 50.
Verso le ore 10 arrivò, lo conobbi. Era il 6 o 7 novembre 1960, appena qualche mese prima della sua morte (egli certamente già lo sapeva: la sua figura fisica, storta e macilenta, disordinata e triste, i tratti del suo volto pallido, la sua rassegnazione, ne erano i segni). Calogero era però nei miei interessi dal 1957, messovi dalla curiosità appunto di scoprire perché Leonardo Sinisgalli, che conoscevo sempre molto estraneo e diffidente nei confronti di tutti, gli presentava sulla «Fiera Letteraria» (3 marzo 1957, gli sbagliarono pure il nome, Norenzo invece che Lorenzo) un gruppo di poesie molto entusiasticamente e in una maniera tanto criticamente serrata, da non lasciare sospetti di occasionalità, complicità e altro. La curiosità aumentò qualche mese dopo. Ancora Sinisgalli, giudice, con Gian Battista Angioletti, E. Falqui, G. Doria, S. Solmi, A. Baldini, G. Selvaggi del Premio di Poesia Villa San Giovanni, volle la sua premiazione. Calogero era uno sconosciuto. Non aveva mai pubblicato versi sulle riviste letterarie. Nessuno sapeva chi fosse, neanche se giovane o vecchio. I versi presentatigli da Sinisgalli potevano far pensare tutto e niente. Come e perché Sinisgalli se ne era tanto entusiasmato? Perché insistè tanto per volerlo vincitore del Villa San Giovanni? Rimasi con la curiosità, legata, peraltro, più agli entusiasmi di Sinisgalli che ai versi e al nome di Calogero di cui avrei voluto conoscere notizie in funzione del mio interesse per Sinisgalli. Versi, presentazione e notìzie della premiazione finirono in una cartella, privi di ogni antefatto. Dopo qualche anno, maggiore amicizia e altro, legandomi quasi quotidianamente a Sinisgalli, fecero tornare il discorso anche su Calogero: «sai, un poeta nel vero senso della parola. Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l'ho scoperto per caso, vedi che può capitare in questo paese, se non si è nel giro, non si esiste... Gli ho fatto qualche articolo, gli feci una presentazione a un libro, gli feci vincere il Villa San Giovanni, pensando che altri, i critici, lo scoprissero. Nessuno si è accorto di niente. È malato, fuori dalla vita organizzata. È un po' impedito, quando venne a trovarmi a  " Civiltà delle Macchine " stava cadendo per le scale... Mi scrive lettere lunghissime, non riesco a leggerle per intero, fitte-fitte, mi cita cose complicate, mi descrive l'amore per una donna, sempre quello, in tutte le variazioni. È di famiglia nobile, proprietari calabresi, i fratelli avvocati e farmacisti. E' laureato in medicina, poi a Campiglia d'Orcia in provincia di Siena... Qui fu colto da crisi di patofobia, credè di avere un cancro, la Tbc. Si ritirò al paese di nascita, è stato in cliniche per malattie nervose. Avrà 10-15 mila versi, ha pubblicato tre libri fittissimi, cinque-seicento pagine ognuno, dice che ha altri cinque quaderni pronti. Bisognerebbe fargliene pubblicare, non può rimanere abbandonato, gli si deve qualche soddisfazione, almeno per questa furia mostruosa che ha nel costruire versi e nel dedicarsi alla poesia, sua e degli altri...». Con questi stimoli Calogero era entrato nei miei interessi.
 Passai tutto il giorno con Calogero. Ore anormali, al cospetto di un uomo che distrugge tutta la vita organizzata di un individuo, tutta la sua carica di autoconservazione e voglia di imposizione nella vita. Una figura pallida e disordinata, suggestionante e dispettosa, apparentemente senza storia, o espressiva solo di storia casuale, inconsapevole, a cui tutto capita per ineluttabilità. Figure apparentemente inutili che pure riescono a condizionare, illuminare o deprimere tutto ciò che le tocca.
 Lo ricordo benissimo morfologicamente: piccolo, magro, storto, tra Leopardi e Tristan Corbière. Faccia semi-glabra e lucida, occhiali tondi e antichi, occhi vividi o spenti allo stesso tempo. L'ho osservato attentamente, seduto sulla punta di una poltrona, bloccato, le gambe intrecciate nervosamente e contorte, la voce nasale, allungata da un leggero accento calabrese. Parlava di tanti guai, della sua solitudine disperata, del fallimento della sua vita, come medico e come poeta, della sua insonnia perenne e inguaribile: decine di Luminal, Talofen, Miltaun. Ne parlava quasi con distacco, come di accidenti naturali: «ormai non ci penso più, posso sopportare, però questi "fatti emorroidali " (proprio cosi "fatti emorroidali") mi danno più fastidio di tutto. Per essi sono venuto a Roma, voglio operarmi, sono anni che vanno e vengono, questa volta mi hanno preso in maniera violenta». Insisteva percuotendo con il pollice e l'indice della mano sinistra uno spigolo del portacalendario (un tic che gli consentiva più disinvoltura, forse). Ogni tanto si richiudeva nel pesante cappotto, coprendosi i calzoni privi di tutti i bottoni. Parlava con il suo tono cantato, residui di saliva densa e nicotinosa gli si erano aggrumati agli angoli della bocca, gli guardavo le mani bruciate dalle cicche e dalla nicotina.
Telefonammo al Policlinico. Era quasi felice di essere ricoverato. Tornammo alla pensione a ritirare le sue cose. Aveva invaso la camera di cicche, ridotte all'estremo. Indugiò nel riordinarsi, sembrava che dovesse piangere da un momento all'altro. Non aveva che una borsa da scolaro di scuole medie, tirò fuori mutande e fazzoletti sporchi. Decise che doveva comprare mutande e fazzoletti. Cominciò a parlarmi di amore: «se fossi sposato non sarei ridotto così, una moglie non mi avrebbe mandato in giro in questo modo ».
Cercai di dargli coraggio, lo aiutai a sistemarsi. Insisteva sull'amore che non aveva mai avuto. Avrebbe voluto che leggessi le sue poesie d'amore, buono, sottomesso, gentile. Gli ricordai che bisognava andare. Insaccò tutto nella borsa e si avviò con il suo passo malfermo. Al policlinico lo spogliarono, gli saltarono di dosso le pulci (non posso non dirlo), lo vidi nudo, tremante, rattrappito, colpevole. Gli sorrisi, mi guardò con occhi e sopraciglia disfatti attraverso gli occhiali sbilenchi. Lo spinsero alla doccia, ricomparve in un camice bianco enorme, tratteneva a stento le lacrime. Mi venne in mente l'analogo episodio di Cardarelli in queste stesse stanze. Mi venne in mente un brano di Francois Mauriac su Rimbaud: ''...una testa irsuta, mangiata dai pidocchi, le ascelle verminose, la bocca marcita dall'assenzio. Quante volte questo Rimbaud l'abbiamo incontrato, e siamo passati sull'altro marciapiede...». Non resisté all'ospedale, scappò via dopo appena due giorni di ricovero. Mi scrisse dal paese scusandosi e cominciando a parlarmi della sua vita, della sua poesia, della sua tristezza, della sua morte. Conosciutolo in queste circostanze e in queste condizioni, letti i suoi casi, dai volumi editi e dai quaderni inediti, provai sensazioni discordi (molte volte ho dubitato e l'ho tradito, gli ho scoperto il decadentismo e i versi facili, le astruserie e le allitterazioni). Meritava in ogni caso, da parte mia, qualche soddisfazione. Gli scriviamo, Sinisgalli e io, di preparare una scelta accurata e di spedirla a Vittorio Sereni che da qualche mese ha assunto la direzione editoriale della Mondadori. Faccio una scelta di quaderni che mi aveva lasciato e la passo a Giancarlo Vigorelli che accetta di pubblicarla su «L'Europa Letteraria». Sinisgalli scrive una presentazione, aggiustandola su quelle già fatte negli anni passati. Gli scrivo tutto ciò e gli chiedo di darmi qualche notizia biografica da integrare a una mia nota. Mi risponde immediatamente, ringraziandomi morbosamente e pregandomi, altrettanto morbosamente, di stare molto attento alla scelta. Poi mi fornisce cosi le sue notizie biografiche: «Mi domandi il mio curriculum vitae. Esso è: sono nato il 28 maggio 1910  a Melicuccà. Mi sono iscritto alla fine del 1929 all'inizio del 1930 nella facoltà di matematica per conseguire la laurea in ingegneria, però l'anno dopo ho cambiato facoltà e mi sono iscritto nella facoltà di Medicina e Chirurgia, sempre a Napoli, dove mi sono laureato nel novembre dell'anno 1937. Ho conseguito l'abilitazione nel 1938. Dopo poco tempo dall'abilitazione ho incominciato ad esercitare la professione di medico libero. Poi, in varie riprese, ho avuto incarichi di medico interino in provincia di Catanzaro e due volte in provincia di Reggio Calabria fino alla vincita di un posto di medico condotto in provincia di Siena, da dove, allo scadere dei due mesi di prova, anche per motivi di salute, mi sono allontanato. Avventure che io possa chiamare veramente avventure, si può dire che non ne abbia avuto affatto. Ho avuto, al contrario, molti guai ed incidenti, ma di questi, ove tratteggiassi un mio ritratto, come tu dici, o ponessi delle semplici notizie, è meglio non parlare affatto». In questa stessa lettera, aggiunge: «...Ti dirò, in ultimo, che contemporaneamente alle tue due lettere mi sono stati restituiti da Vittorio Sereni della Mondadori due dattiloscritti che avevo muniti di due lettere: una battuta a macchina e l'altra scritta a mano. Sereni mi ha risposto con una lettera molto cortese e non posso dire, se penso specialmente a uno dei dattiloscritti, che le critiche ch'egli mi muove siano del tutto ingiustificate, anzi nella sua estrema cortesia fa qualche appunto che non solo è fondatissimo, ma è anche di quelli che sentivo io stesso nell'inviargli le due opere. Tuttavia conclude per un "no possibilista"» (1).
(1)  I due dattiloscritti e copia della lettera battuta a macchina sono ora in mio possesso. Avrebbero, dattiloscritti e lettera, scoraggiato il lettore più ben disposto e più devoto. Il dattiloscritto «Sogno, non ricordo » contiene i versi meno buoni di Calogero. Capisco come abbia inviato a Sereni proprio questo, solo se ripenso alle giornate tragiche che viveva quando lo ordinò: novembre-dicembre 1960. La lettera è di venti (20) cartelle dattiloscritte, zeppa di tutte le sue teorizzazioni, che aveva accumulato in trenta anni, sul concetto di poesia. Anche la lettera di Sereni è in mio possesso. Non creo ammiccamenti se dico che essa è, almeno, la più circostanziata che Calogero abbia ricevuto. Certamente egli ne fu, se non contento, consapevole, come chiaramente è detto nel brano che ho riportato.


1. segue (forse)



da consumarsi preferibilmente entro: vedi etichetta

da consumarsi preferibilmente entro: vedi etichetta


Diario, pagina.

vorrei scrivere qualcosa
e che fosse bello
per ciò che non è stato
e giusto
per quel che resta

faccio solo parole
increstano la linea dei desideri
più in là
l'orizzonte minaccioso
gli interessi
i vuoti mai riempiti
e già persi
i prezzi
i pagherò
e nelle mani vaganti
il tintinnio della moneta
il sogno sonante
i passi

i no, da qui non passerai
non è via
non si discute

mi sono seduto
e qualcosa mi abitava
io non so se sapevo di piangere
o se piangere poi
ché avevo saputo

io non so
non importa più
il mio estero senza confini.

siedo sul masso della malinconia
qui
un giorno o un attimo
si poserà anche un dio
vorrei che quel giorno quell'attimo quel dio
fossero cosa solo mia

e vorrei scrivere
una poesia senza occhi
vorrei proseguire
ora che è scaduto il mio minuto
e quasi mi sfuggiva
la sua etichetta.

Solo
dove abito ora
nessuna scadenza, nessuna fretta,
una scritta, ma lieve a pena
da consumarsi ante:
vedi etichetta...
sul fondo, convessa, si stampiglia.

20 settembre 2010





martedì 28 gennaio 2014

Mi fermo come gli alberi




Mi fermo come gli alberi
E prendo per i rami
Mi sfiorano strade
E colli in viste
Sempre più lontane
di verde che amo,
Il verde che hai portato
Da dividere insieme
Con radici che non toccano più a terra
Alte, come i tuoi occhi, come di te le mie mani

Abbiamo riso
E sparso malinconia
Abbiamo pianto,
Forse tu,
E spartito allegria
Poi le nostre mani hanno preso per i rami
E a terra, gli alberi, lenti, lenti
Si sono fermati a correre
Ma così, cauti, silenti
Come le fronde quando spira
Con levità di sguardi il vento.

lunedì 27 gennaio 2014

Torno a scrivere sui fogli da dimenticare



Torno a scrivere sui fogli da dimenticare
Rispettoso del loro pallore, candido
Come un ladro di soli suoni alle parole
Io non rubo che crepe alle mura
Quelle antiche, di rovine
E nient’altro ho da dire,
Nulla per gli occhi né per le dita adunche
Sono nelle mie stanze di solitudini consecutive
E amo il vuoto e il bianco
Amo le mani e i ricordi
Dove non entrano i giudizi efferati di chi non ama
Perché solo di un miracolo parlo
E non c’è pena né offesa che lo intacchi
Ché si moltiplica, da sé
Come l’attimo che si fa infinito.

E tu sei in quell’attimo
Io aspetto.

domenica 26 gennaio 2014

Lune aperte nella notte

Lune aperte nella notte
Ferite di donna
Grembi
Occhi che vanno
Senza un perché compagno
Spalle che tornano
Lente
Verso case fredde
Il suono dei passi coperto dal vento
È freddo di sera
Quando torni
E le mani non si scaldano
E forse non hai voglia di cercare
Altro calore a perdersi
Altro affanno
Negli occhi stretti rimangono le strade
E le punte fredde dei piedi
Sospinte a fatica

Viene voglia solo di essere in sonno
Di abbandonare le mani al volo
Di essersi alzati dallo strapunto del letto
E tirare scarpe contro i vetri
Sono urla che nessuno sente
Come questo scivolare lento
Verso un fondo
Verso un appiglio
È gia notte
E gli occhi si chiudono
Con forza
Con forza pari
Li solleverà l’alba
Ripartirà il giorno
Non sarà successo nulla
Si staccherà un’altra pagina diaria
Nessuna nuova ruga apparente
Non sarà cambiato nulla
Sarà semplicemente giorno
Incredibilmente notte.

martedì 21 gennaio 2014

amo il colore



Amo il colore delle nuvole
Quando insistono gli occhi
Fino ai bordi del cielo
Amo le piogge silenziose
Quelle che nessun lampo può scheggiare
Nessun tuono ferire
Amo le acque chete e così lineari
A perpendicolo, senza ricette, senza sconti, senza fretta
Amo le nuvole
Quelle dietro gli occhi
Quando ti guardo nella pioggia
E oltre si affaccia
Dai tuoi omeri, a capofitto
Timido, scontato, a volte improvvido
Un nostro sole a spicchi
Dietro le grate e davanti ai giorni
Quelli che a mani tese, oggi sempre mi porti.

lunedì 20 gennaio 2014

si fa notte negli occhi


... e basta con queste storie che esistono intere popolazioni composte di cretini, di assassini, di ladri, di puttane.

si fa notte negli occhi
e non so cosa cercano
per le strade che scivolano via
veloci scie e colori sibillini
di tutte le razze
di tutte le mani strette sui volanti
delle linee mezzane e rie
di queste notti puttane
non rimane che un cordolo
biascicato
come di bava di lumaca
solo forse
diversamente strascicato a stento
e queste sono le lingue
quelle d'asfalto
e delle schiave ai finestrini
sembrano figlie di nessuno
come la pena
senza padrone certo
solo madri
quelle sì, a immaginarle
e piangere ovunque
per i margini ricurvi delle strade
dove meglio si vede
credo
l'occidente lesto nelle mani.

domenica 19 gennaio 2014

Con stupore di cruna



Con stupore di cruna a un passo dal filo
A capo chino scorre il remo
E strenuo, lo stroppo ne governa
I moti di deriva

E’ il mare che sento, dentro
E quieti li vorrei gli attesi scalmi

È sempre così, un ripartire orizzonti
Un rischiarare di luci
È un tempo illune che mi conduce
Si chiama notte, il mio giorno che s’avvita
E sui suoi stessi pani,
non è che ruvida una traccia

Così si ricompone, il nulla di così poco
A volte mi rimane un urlo che so
Come con me si giace
Poi tace
E torna nulla
O poco più
Un urlo, un bacio.

sono sempre gli stessi

sono sempre gli stessi, i treni a partire
in coda gli ultimi della fila
recano sempre due fanali in croce
su una bava che si cancella di rotaie
un bagliore che riverbera e di taglio
intermittente
sul piano di rotolamento
imperterrita la miseria della ferraglia

i miei treni arrivano sempre stravolti
nessun capolinea miracoloso
nesunna tana che li liberi tutti
ma solo ripartenze e un ostinarsi
quasi d'ospite inadeguato

giovedì 16 gennaio 2014

Pigmalione e Galatea.

dormi, e che non passi la dea
a svegliarti
sogno mani
bianche senza appigli
e solo spazi
lievi
infinitesimi
tra superfici a levigare
e pelle, dove ti sento
respirare
io solo,
re, scultore, nano

tu dormi, come da sempre
e il tuo nome ha il colore della pelle:
sei nella notte e velo
i tuoi occhi
assenti

dormi, fino alla fine dei sogni
quando la grazia si farà condanna e posa
il tuo velo sulle mie mani
lento
dove ricomincia il giorno:
ché non passi la dea a svegliarti
prima che tu sia mia sposa.


Ho riletto - forse rivisto, immaginandola - la storia di Pigmalione, con un pizzico del bianco di Galatea. 
A seconda delle leggende, Pigmalione fu un re cretese, si innamorò di una statua di Afrodite e pregò, esaudito, la dea affinché rendesse vivo quel simulacro, oppure fu uno scultore innamorato di una sua creazione al punto da invocarne la possibilità di amarla. Questo è il mito classico; affine ma non sovrapponibile ad esso è quello che deriva dall'opera omonima di G. B. Shaw, molto più noto di quanto si pensi, anche a livello inconscio, onirico o di desiderio. Da qui nasce il nome di effetto Pigmalione o Rosenthal, che questo psicologo scelse per indicare quello che personalmente leggo come una specie di 'sono come tu mi vuoi'.
Credo che la poesia abbia un senso solo in quanto partecipata, intima, lirica. Diversamente mi suona come enunciazione, invenzione, manipolazione, uso più o meno sapiente di metri e ritmi, parole.
Di conseguenza mi domando se potevo quindi parlare di Galatea e Pigmalione, che neanche nel mito si conoscevano. Forse sì; di più: credo che tutti potremmo parlarne (e questo è l'effetto Rosenthal: credere che chiunque sia in grado di fare cose che in realtà potrebbe non fare mai - quale ne sia il motivo - se solo ci fosse un Pigmalione a plasmarlo).
Credo di essermi confuso, oppure di non aver detto tutto.


domenica 12 gennaio 2014

Milton, Blake, Roccabernarda, Serafino da Salandra...

  A suo tempo qualcuno avanzò l’ipotesi che un nobile calabrese fuggiasco, tale Crollalanza, si fosse tramutato in ‘Shakespeare’, che più o meno significa la stessa cosa… Tra Shakespeare, Marlowe, e il Crollalanza, calabro e quindi per natura – ci mancherebbe! – incline ai ‘torbidi’, una qualche storiella verosimile poteva scapparci. Meno campata in aria, invece, è un’altra tesi, quella che fa risalire all’opera del frate Serafino da (o della) Salandra e al suo ‘Adamo caduto’ la potente ispirazione del ‘Paradise Lost’ di John Milton, una delle massime opere poetiche della letteratura inglese. Di questa ispirazione che rasenterebbe il plagio parla la scrittrice Kazimiera Alberti(*) nel suo ‘L’anima della Calabria’, un bel travelogue, uno dei migliori, con oggetto la Calabria; è un testo molto ispirato, sentito forse con eccessivo trasporto, ma scritto qualche anno fa, quando il sol dell’avvenire faceva sognare qualcosa di buono… oggi le tante speranze della Alberti e molti suoi entusiastici riconoscimenti alla nostra terra suonerebbero forse retorici ed eccessivi… In effetti lo stesso Serafino da Salandra, annoverato tra le glorie regionali, non era calabrese, ma lucano, e dirlo mi spiace pure, considerando l’amore dell’autrice per la Calabria. Ci salviamo in angolo dicendo che il poema ‘Adamo caduto’ fu pubblicato a Cosenza nel 1647 e che senza dubbio quel frate visse anche in Calabria. Del suo ascendente su John Milton si occupò per primo il paolano Francesco Zicari nel suo ‘Sulla scoverta dell'originale italiano da cui Milton trasse il suo Poema del Paradiso Perduto’ del 1844 e ne parla, tra gli altri, Norman Douglas (*) nel suo ‘Old Calabria’.

   Nessun pericolo di sovrapposizioni o plagio vi è, invece tra le due composizioni che seguono; la prima è tratta dalle ‘Visioni’ di William Blake (1757-1827), nella traduzione di Giuseppe Ungaretti:

Non cercare mai.
Non cercare mai di dire il tuo amore,
Amore che non può essere mai detto;
Il gentile soffio si muove
In silenzio, invisibile.

Dissi il mio amore, già dissi il mio amore,
Il cuore le apersi;
Tremando, gelando, in orrenda tema,
Ah, lei, lei se ne andò.

Appena mi lasciò,
Un viandante passò,
In silenzio, invisibile:
Gli bastò un sorriso, la prese.

La seconda è tratta da ‘Canti popolari del Marchesato di Crotone’, a cura di V. Lerose, A. Lumare, C. Ripolo:

Arvulu picciriddu t'addevavi.

Arvulu picciriddu t'addevavi

cridiennu ca de tia mangiava fruttu,

cu na zappa de uoru t'azzappavi,

t'abbiveravi cu chianti e arrutti.

Pue vinna unu cu 'u vitti mai,

tagghiau u ramu e coza ru fruttu.

Io l'amaru micc'amaricai

cume a trignula du mise d'agustu.

Traduzione:

Albero piccolino t'allevavo

credendo che da te mangiavo frutto,

con una zappa d'oro ti zappavo,

t'abbeveravo con pianti e singulti.

Poi venne uno che non vidi mai,

tagliò il ramo e raccolse il frutto.

Io tutta la parte amara masticai

come la cicala del mese d'agosto.

Nota - Si insegue un sogno d'amore allevando con gli occhi una ragazza e aspettando con calma il momento di agire, ma sul più bello arriva uno straniero qualsiasi che in un batter d'occhio raccoglie il frutto di tanto desiderato. Non certo il significato di "trignula". (Abbiamo ipotizzato una radice greca, trìgmos-stridere e abbiamo pensato alla cicala, ma non convince più di tanto).

 

   I due componimenti mi sembrano ispirati da un comune, anzi comunissimo, denominatore: l’amore che si scioglie dalle catene che un innamorato crede di poter serrare intorno all’amata, prescindendo dalla volontà di quest’ultima…  
   In effetti, quei componimenti di cui sopra mi ricordano queste righe che ho annotato un giorno camminando dopo la pioggia:
Ha chjovùtu e i merùchi
C’ull’ha gghjaccàt’ u tronu,
c’ull’ha sucàt’ u lampu
Pàssin a strata, queti e senza šcampu
U primu fissu ca si trova i zampa.

 

E’ piovuto e le chiocciole

Che il tuono non ha leso

Che il fulmine non ha inghiottito

Attraversano la strada, lente e senza scampo

il primo idiota che passa, le schiaccia.

 Chissà a cosa stavo pensando, di sicuro alla differenza tra chiocciole e lumache, all'odore della pioggia, a questi luoghi estranei dove mi sento fuori luogo pure a camminare... cioè, non lo so a cosa stavo pensando, c'erano tante 'meruche' spiaccicate sulla strada e bottiglie di plastica nei fossi appena ripuliti ma non abbastanza...  E gazze, e upupe, soprattutto una che 'mi faceva la guardia' tutti i giorni e mi seguiva per un tratto... che cosa ci facevo lì? Boh.

Forse ero lì a pensare a tutte le volte che sono stato meruca e alla strada che mi veniva negata, per mia lentezza o mancanza di artigli... dicono che Jessu Cristu duna pane a chin un tena denti, e di questo non si è mai dato pena... e nemmeno io, almeno di questo non devo ringraziare nessuno, le meruche non posseggono artigli né denti.

* Kazimiera Alberti (Bolechow, odierna Ucraina, 1898 - Bari 1962), scrittrice e traduttrice di famiglia polacca, dopo un silenzio decennale pubblica in Italia, dove nel frattempo si era trasferita e sposata,  'L'anima della Calabria', un travelogue, un libro di viaggi, per i tipi dell'editore Conte, Napoli 1950, ristampato poi da Rubbettino, Soveria Mannelli 2007 .

* Di Norman Douglas, 'homo mediterraneus' per tre quarti scozzese, anch'egli nato fuori dai suoi 'confini naturali' (Thuringen 1868 - Capri 1952) ci sarebbe tantissimo da dire, mi limito a ricordare 'Old Calabria', la cui prima edizione, inglese, apparve nel 1915... la prima italiana è del 1962 ! E' giudicato, questo 'Vecchia Calabria' uno dei migliori libri di viaggio in lingua inglese, e forse è il più bello, tra quelli che riguardano la Calabria, dove in quel 'bello' intendocomprendo anche intelligenza e capacità di analisi di persone, luoghi, tempo, memorie.


lunedì 6 gennaio 2014

A proposito di poesia, 2: Petrarca, sonetto 272, W. Siti.



Lettura del ‘Sonetto 272 dei Rerum vulgarium fragmenta’ di Francesco Petrarca (‘Francisci Petrarchae laureati poetae rerum vulgarium fragmenta’, se vogliamo dirla tutta; ‘Il Canzoniere’, per gli amici…).
La lettura del signor Siti mi sembra, forse come temevo - e in questo caso devo ammettere di essere stato ‘prevenuto’ - un compitino editoriale che il ‘commentatore’ si sarà di buon grado accollato, per gli evidenti ‘ritorni’ che potrà trarne.
Il Siti esordisce con un ‘Non è un sonetto perfetto e questo commuove in un poeta che è stato modello di perfezione per alcuni secoli.’  Ognuno è libero di esprimere i propri convincimenti, ci mancherebbe: posso quindi dire che è mia convinzione che questa è la prima lapalissiana sciocchezza contenuta in questo commento.
Metricamente il sonetto è perfetto, come sempre in Petrarca, e risponde ai canoni metrici dell’epoca… e anche delle epoche successive: due quartine e tre terzine secondo lo schema ABBA ABBA CDE CDE, rima alternata nelle quartine e rima varia nelle terzine, punto. Se poi non torna il computo delle sillabe che formano i versi… lì bisogna applicarsi e ricordare che non basta, per esempio, contarle secondo la divisione dettata dalle grammatiche, ma secondo le leggi della metrica.
Il commento prosegue con un ‘in veritate è superfluo’… no, non lo è: è umano e funzionale, anche, per quanto attiene alla ‘misura’ dei versi, altro che ‘zeppa da poeta mediocre’.
‘Or quinci or quindi’, ‘ e poi da l’altra parte’ sono, secondo il Siti, ‘precisazioni pesanti: nei primi cinque versi si ripete per sette volte la congiunzione ‘e’’…. e allora? Forse occorrerebbe calarsi, più umilmente, nella vita e nella poetica del tempo di Petrarca, magari dopo aver dato una buona scorsa ad un manuale di stilistica e di storia della letteratura… così è troppo comodo, criticare con l’occhio di oggi e cercare peli nell’uovo che al poeta del Canzoniere saranno indubitabilmente costati ore di pensiero e di apprensione, nonché di applicazione.
E’ un commento scadente, perlomeno deludente: come si dice dalle parti del Siti, in valle padana, credo che questo signore stia ‘zappando fuori del suo orto’ e farebbe bene, anzi benissimo, a cercare di comprendere quali siano stati gli schemi entro i quali Petrarca, e la pletora di imitatori dell’aretino - ma non solo imitatori, anche buoni poeti - si sono mossi, anzi dovuti muovere. Non si assurge a regolatori della lirica italiana per secoli senza una solida ispirazione e preparazione poetica: comprimere un sentimento è forse più difficile che esprimerlo, specie quando il mezzo è in un certo senso ‘volatile’ come la poesia… e allora non venga a parlare di luoghi comuni della letteratura classica ed altre amenità del genere… Il Siti dovrebbe dire, se lo sa, come nasce la poesia, cosa comporta, cosa ha dentro, questo modo di esprimere la propria e l’altrui umanità. Ma di questo, a ben guardare, ognuno può farsi una idea leggendo gli autori e i critici… stavo per dire ‘critici seri’, quelli che spesso sono, a loro volta, anche poeti e possono capire.
Questa della Repubblica rimane, a mio modo di vedere e a giudicare da questa prima uscita, una semplice operazione editoriale o poco più, mancando le promesse e le premesse di una lettura liberata da orpelli e altri pesi accademici: non vi è nessun senso di sconosciuta leggerezza in questo modo di commentare un testo poetico. E allora tanto vale che me torni a cantarmela e suonarmela da solo, proprio come quei dannati dei blog di cui il Siti parlava nel presentare il suo ‘lavoro’.

domenica 5 gennaio 2014

A proposito di poesia.



A proposito di poesia e della iniziativa editoriale del quotidiano ‘La Repubblica’, a cura di Walter Siti, Premio Strega 2013 con ‘Resistere non serve a nulla’.
… ed in effetti nulla so di questo scrittore e del libro premiato, ma forse è meglio, così posso dedicarmi senza particolari condizionamenti alla rilettura dell’articolo apparso il 4 gennaio 2014.
Alcuni punti si segnalano per la visione lucida che li ispira, altri per la bonarietà ai quali sono improntati, almeno nei propositi dello scrittore, che annuncia una sua personale lettura domenicale, per tutto l’arco di questo anno, di una poesia, svariando per le letterature di tutto il mondo (il titolo dell’articolo in oggetto è ‘La poesia del mondo’… un po’ ambizioso, probabilmente), da Petrarca a Pessoa, passando per la Dickinson  e Rimbaud e tanti altri bellissimi nomi.
L’articolo comincia con la considerazione dello stato attuale della ‘poesia’ intesa come genere editoriale, più che letterario: a detta degli editori la ‘poesia’ è un’area depressa, pochi giovani sono capaci di scrivere qualcosa che rimanga impresso nel lettore, per cui gli editori ricorrono, alla bisogna, alla riedizione di classici, da quelli della prima metà del novecento e a ritroso fino a Catullo. Il Siti sottolinea come una massa di persone si dedichi, in Italia, al romanzo, mentre gli autori di poesie sono relegati, costretti, ad affidarsi a case editrici minori o minime, in un circuito – vizioso, sembra di leggere – ‘dove i poeti se la cantano e se la suonano, litigando e leggendosi a vicenda’. Avendo un po’ frequentato i blog di persone che scrivono poesie, o che vorrebbero o pretenderebbero farlo, devo dire che mi sembra che sia proprio così, con una corsa alla pubblicazione che francamente non condivido. E’ giusto, ed è pure ‘salutare’, che ci si dedichi alla scrittura, ma non basta dare un calcio ad un pallone, magari imbroccare il tiro giusto che vada ad insaccarsi nel ‘sette’ della porta avversaria (se non nella propria, con clamorosa autorete) e sentirsi degni del Maracanà… no, prima bisogna fare un grande esercizio fisico - sennò manca il fiato, e non vai da nessuna parte -, e poi, o al contempo, dedicarsi a quei noiosissimi fondamentali che sono alla base di qualsiasi arte, e anche se non sai sul momento cosa sia una anafora o un iperbato… poco male, ma almeno averlo saputo, almeno questo non farebbe male all’aspirante poeta o scrittore. Per pubblicare qualcosa, per ritenersi adatti o pronti a dare qualcosa di più agli altri, ai lettori, credo si debba essere capaci di cogliere quel ‘quid’ che fa la differenza, non essere o sentirsi superiori, ma semplicemente offrire qualcosa di diverso.  E’ poesia? Si spera di sì.
Prima, qualche rigo fa, sono stato volutamente freddo, parlando di anafore ed iperbati… sciocchezze: le forme del linguaggio poetico sono molto più calde ed umane, nonché diffuse, ed infatti diciamo metafora e già sembra una parola difficile (anche se ormai questa parola non fa più paura, visto quanto è usata, soprattutto a sproposito), ma va da sé che la metafora è, per il poeta come per il parlante comune, un semplice mezzo espressivo, uno dei più usati ed efficaci… cosa distingua poi la metafora del poeta da quella di un venditore di almanacchi è tutto da vedere, cioè: dove risieda la poesia, questo è tutto da verificare.
Nell’articolo si parla, poi, di lirica e di musica, e di come rappers e cantautori, ad un certo punto, si siano fatti continuatori o portatori di quel ritmo che sembra essere venuto meno nelle opere poetiche. Verissimo, è il battito, la musica, che manca in moltissime ‘poesie’, è proprio questo il quid discriminante di cui cercavo di parlare, tra colui che fa il poeta, che possiede conoscenze di forme metriche o stilistiche, e chi poeta è, con o senza quelle conoscenze, ma con quel battito intimo che cerca una sua espressione, spesso insopprimibile, irraggiungibile, dolente. E forse, messa così, non mi è possibile dire che tutti possono scrivere poesie, che tutti possono provare ad autopubblicarsi (per questo oggi basta pagare). Aggiungo che bisognerebbe anche meritare di essere letti e che qualcuno vi provvedesse, magari senza obblighi di amicizia o parentela, e questo è più difficile di quanto si immagini, visto che ormai, tra presentazioni e buffet letterari, siamo alla farsa…per non parlare degli scambi di lodi e di cuoricini sui social network, ma forse qui si tratta soprattutto di semplici atti di benevolenza, poco male.
Tornando a rappers e cantautori, mi pare di capire come l’autore dell’articolo colga un aspetto importante, relativamente al loro essere poeti o no: nelle loro composizioni c’è il ritmo, sì, ma senza quel ‘battito’ esse rimangono canzoni, musica esterna.
Io rimango della mia idea, che la poesia è ‘cosa cordiale’, spesso dolorosa, e molto, per giunta, quando essa non riesce a trovare espressione e ‘soddisfazione’. Se la ‘cosa’ è seria bisogna maneggiarla con cura; se di esercizio si tratta, allora va bene, basta chiamarla con nomi diversi da ‘poesia’, ché di altro, in effetti, si parla.
Intanto aspettiamo le letture domenicali, sdoganate dagli schemi tradizionali, come annunciato nell'articolo: buona idea, e spero efficace, affinché si possa cogliere qualche aspetto meno gravoso o scolastico, di questa materia che più attiene al 'cuore'... 'cordiale', appunto.

sabato 4 gennaio 2014

Te quiero, nada más

Mateo E. L.

Te quiero, nada más
ya lo sabes, tú
las arenas, las sábanas

Ti voglio, nulla più
già lo sai, tu
e lo sanno i lini, le sabbie
il nostro amore di trame
infinitesime
come i granelli che finito il mare
diventano spiagge
ed entro le ripe
si continuano in greti
e letti, si fan fiumi
del nostro amarci
sgorgando rivi
dai tuoi occhi che mi attirano
in basso
tra i cuscini e i declivi, dolci
di carezze, di parole
così spegniamo il freddo
sollevandoci entrambi
e non siamo
che un corpo, di noi, una trama.

Hoy eres tú, mi rio.

conoscere il freddo



conoscere il freddo
quello dei poveri
delle stanze fredde
dei vuoti a mai rendere
quelli di dentro
senza un filo che conduca
in quel posto mobile
che chiamo, generico, altrove
e poi più a fondo sentire
che di quelle ascisse e ordinate
la trama al revés
di quei selciati accaniti d’apparenze
non trattiene che fughe unite a linee
impenetrabili, strette
dove osano solo polvere e respiro
a provare il gelo
quello dei poveri fuori
quello che ancora si scioglie
e per poco che basti
il mio ricordo si posa
come orme fonde, capovolte
già oltre
queste capriate che reggono
un cielo imperterrito
il nostro
senza vie di fuga
senza punti di saldatura
nato così, come un nostro cielo di sole e terra.

venerdì 3 gennaio 2014

Non si vede il tempo.

E' un ricordo del tempo in cui i cacciatori venivano al mio paese per 'sparare' e prendevano stanze in affitto; in maggioranza provenivano da Reggio Calabria e la loro presenza ritagliava quasi una piccola stagione, che non era semplicemente, o non solo, 'la stagione della caccia'. In fondo anche questa è solo una metafora d'un altro tempo.

Non si vede il tempo
                        Tu levi
dalle mani le tasche
    e si sente come un battito
le ali.

Tornerà dal cielo
con le rondini
e poi col passo delle tortore
il tempo delle cacce
verranno da Reggio i cacciatori
coi loro cani esili
fiuteranno i luoghi
prenderanno stanze
da Donna Emma, da Donna Bellina
come un tempo
rideranno senza posa
apposteranno senza tregua
vuoteranno i carnieri
eleveranno levrieri come creature
splendide del loro stesso sangue
fatti carne
liberanno fino a notte fonda i cacciatori
poi nell'alba con occhi scialbi
e già aguzzi
faranno la posta
alle prime donne e agli angoli delle chiese
mostreranno i calzoni gonfi nel primo mattino
vuoteranno le fiasche alle labbra
fischieranno ai cani
si rincorreranno nelle loro giubbe da soldato
nelle reti nei coltelli
nella panoplia da caccia
caricheranno le auto dei vini migliori
prenderanno la via del mare
orinando nei rovi e per strada
la moria delle ali
silente
sarà contraria alla litania
del ritorno, ai ventri a terra tenera e violenta.

Un vento si accuccia nelle tasche
gli affido parole slegate e ricordi invertebrati
Avessero le mie dita il candore d'allora
quando stracciavano i miracoli  ridendo.

28 maggio 2012