lunedì 1 settembre 2014

L. Calogero, 'lo strano poeta di Melicuccà', G. Tedeschi, Premessa, parte II.

Cinquecentesimo post... forse ho esagerato.
http://krimisa.blogspot.it/2014/01/lorenzo-calogero.html (per la parte I)
NOTA: la 'Premessa' di Tedeschi non è divisa in parti, la suddivisione è dovuta al fatto che nel mio adattamento grafico consta di ben 14 pagine A4.
Quella che segue è la seconda parte della 'Premessa' di G. Tedeschi ai due volumi dell'edizione Lerici dell'opera completa (tale doveva essere secondo le intenzioni dell'editore) di Lorenzo Calogero. Spero di non violare i diritti d'autore, nel cercare di far rivivere questo buonissimo lavoro del Tedeschi. Del resto i lettori di questo blog sono talmente pochi che la violazione sarebbe comunque trascurabile.
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   Mi scrive altre lettere, lunghissime e che sembrano nate, tutte, da un unico, costante, incalzante motivo: la poesia, la figura del poeta, il suo fallimento in ciò, o, almeno, la sua incapacità a penetrare a fondo in questi ingranaggi. Lo esorto con vaghe giustificazioni, le sue posizioni epistolari sono estreme, rasentano l'alienazione e quasi un tipo di nevrosi, sistematica, intensa, perenne: l'ossessione della poesia. Vigorelli, per esigenze redazionali, non può pubblicare, nel fascicolo di febbraio-marzo, le sue poesie. Glielo scrivo. Mi risponde (mancano appena dieci giorni alla sua morte e egli certamente già lo sa): «Ti ringrazio moltissimo della tua lettera e della comunicazione che mi dai. Ho capito ormai e da molto che mi trovo in un mondo alquanto misterioso. Prima speravo che sarebbe finito e che sarei rientrato in una certa normalità di vita. Mi accorgo adesso o, meglio, faccio la triste esperienza che quel tale mondo che avrei desiderato come una specie di normalità al mio genere di vita, a quella tal vita che mi sono costretto a vivere, non verrà mai più. E’ tanto già se tu mi degni della tua amicizia...». Povero Calogero, ancora una volta disperato e sconfitto, e ignaro se la sua poesia, cui ha dedicato tutto se stesso fino alla follia, sia degna. Il 26 marzo ricevo dal fratello Francesco la comunicazione della sua morte («...conoscendo la sua amicizia con mio fratello Lorenzo mi premuro comunicarle la sua morte avvenuta sabato 25 ultimo scorso»).
 Rimango molto turbato dalla schematica perentorietà di questa lettera e dall'inespresso che contiene. Mi torna alla mente un brano della tua ultima lettera ricevuta qualche giorno prima e datata 18 marzo: « ...non è stata una gran bella esperienza quella che ho fatto, ma  il mondo era in tal modo era bene pure che lo si sapesse, per quel tanto, almeno, che non si dovesse distruggere la propria vita senza che nemmeno lo si sapesse...». Chiedo al fratello di dirmi qualcosa di più, di spiegarmi meglio. Mi risponde con una drammatica e pietosa lettera, completa, nel suo assurdo sviluppo e nei suoi specifici ragguagli, di una serie di vicende che possono porre in dubbio addirittura tutta la condizione dell'uomo e della sua storia.
Eccola: «...La morte del mio povero fratello ci ha colti di sorpresa ed ancora non ci siamo ripresi dal trauma, quantunque si debba arrivare alla conclusione logica, suggeritami da un mio amico, professore di filosofia all'università ed amico fraterno pure di Lorenzo " che per quanto triste sia stata la sua fine è certamente meno triste della sua tormentata esistenza "(...). Infatti è stato sempre infelice e credo che non abbia mai avuto un attimo di piena felicità o soddisfazione. Anche quando all'unanimità da una commissione di uomini illustri gli è stato conferito il premio letterario Villa San Giovanni, lui ha accettato l'avvenimento, che ha fatto esultare noi familiari, con un senso di amarezza e di sfiducia. Io lo seguivo molto da vicino e ascoltando i suoi interminabili e talvolta caotici discorsi ravvisavo in lui i personaggi dei romanzi di Franz Kafka. (...) Per lui la vita era misteriosa più di quanto questa sia in realtà. Tale mistero in questi ultimi tempi lo assillava in maniera paurosa. (...) Adesso cercherò di raccontarle come si sono svolte le cose per lo meno nell'ultima settimana che va dal 19 al 25 marzo. Mio fratello viveva solo in una villetta di proprietà di mio padre in Melicuccà. Io e mia sorella andavamo a trovarlo due volte alla settimana per provvedere alle sue necessità. Domenica 19 marzo come al solito verso le ore 15 ci siamo recati a Melicuccà, ma aperta la casa non abbiamo trovato mio fratello, cosa questa che ci è capitata diverse volte. Infatti quando partiva non aveva l'abitudine di avvertire alcuno. Quindi quella sera dopo aver sbrigato quanto avevamo da fare in paese siamo ritornati a Bagnara senza eccessive preoccupazioni. Lunedì mattina, giorno 20 marzo, Lorenzo si è recato a casa mia accompagnato da un altro mio fratello, che abita pure a Bagnara e nella cui casa aveva pernottato (...) Si è trattenuto a casa mia fino alle ore 16 dopo di che l'ho accompagnato in macchina a Melicuccà, dove mi sono trattenuto fino alle ore 20 circa a discutere con lui, quel giorno era calmo come non mai. Questo è stato l'ultimo mio incontro con lui. Venerdì 24 marzo, essendo mia sorella impegnata, mi sono recato da solo a Melicuccà, dove giunto ho trovato la casa chiusa e non avendo con me la chiave ho deciso di tornarmene a Bagnara. Prima di partire ho chiesto ai vicini notizie di mio fratello e m'è stato riferito da alcuni che loro l'ultima volta l'avevano visto martedì giorno 21 marzo in chiesa, dove s'era recato a confessarsi e farsi la comunione. Era ormai da venti anni che non praticava i sacramenti o frequentava la chiesa, ed anzi dai discorsi che teneva con me dimostrava un astio particolare verso tali istituzioni. Dopo aver assunto queste sommarie informazioni sono tornato a casa, pensando che anche questa volta mio fratello fosse partito come al solito per qualche posto. La mattina di sabato però sono stato assalito da un dubbio, e Lei intenderà le ragioni di questo dubbio da quanto fra poco Le dirò, e perciò ho mandato un incaricato ad aprire la casa e Lorenzo è stato trovato a letto morto. La sua morte secondo il parere dei medici risaliva ad almeno tre giorni prima. Per spiegarLe le ragioni del mio atroce dubbio di sabato mattina debbo anche io entrare nel problema che la vita è misteriosa per tutto e mi debbo riportare molto indietro nel tempo. Quando mio fratello aveva 15 o 16 anni, sotto la guida della mia povera mamma, donna molto religiosa, era talmente infervorato della religione che per diverse volte ha praticato i primi venerdì del S. Cuore di Gesù. Tale  pratica consiste nell'accostarsi ai sacramenti ogni primo venerdì di mese per nove volte consecutive. Per chi ha seguito tale pratica con fede esiste la promessa del S. Cuore di Gesù che non potrà morire se non in grazia di Dio. Per dare giustificazione a questo inciso Le debbo dire che mio fratello ha tentato di suicidarsi due volte mettendo la sua vita in grave pericolo, la prima volta verso il 1942, sparandosi un colpo di pistola in direzione del cuore e la seconda volta circa cinque anni fa recidendosi le vene dei polsi, periodi questi in cui era in lite con la chiesa. Rammentando tali episodi debbo ricordare anche le parole della mia povera mamma che in tali circostanze, sia la prima che la seconda volta, ha detto "non può morire perché non è in grazia di Dio e non morrà finché non sarà in tale condizione perché ha fatto i nove venerdì del S. Cuore di Gesù". Il mistero qui comincia a prendere grosse proporzioni e preferisco non addentrarmi dato che Lorenzo faceva uso di sonniferi; quando ho appreso la sua morte mi son posto e mi pongo ancora il problema "è morto o ha voluto morire?". Cerco di dissipare il dubbio sulla seconda eventualità al lume degli avvenimenti che precedettero la sua fine, poiché essendo uomo intelligente non poteva conciliarsi con Dio premeditando contemporaneamente quanto da Questi è condannato..».
 Nell'aprile, «L'Europa Letteraria» pubblica i suoi versi con questo preciso giudizio di Giancarlo Vigorelli: «...un caso, non soltanto letterario, che sembra inscriversi tra quelli eccelsi di Campana e di Artaud» e con questo corsivo redazionale: «Questo "Omaggio a Calogero1'' fu congegnato quattro mesi fa e avrebbe dovuto comparire nel fascicolo scorso di "L'Europa Letteraria".
   Calogero, così colpito da sventure, senza credito e senza speranze, come sempre fu, ne attendeva la pubblicazione quasi con ansia. Le sue lettere sono commoventi al riguardo. Esigenze redazionali non ne consentirono la pubblicazione. Oggi che egli è morto, improvvisamente, (Melicuccà 24 marzo 1961) queste pagine avrebbero dovuto avere un altro tono, almeno più inequivocabile e perentorio sul significato che un verso assume dopo una repentina morte. Dovevano essere una testimonianza per un "vivo", non la rivelazione del talento di un "morto". Si preferisce perciò lasciare nella stesura originaria e il distico bio-bibliografico e la puntigliosa presentazione di Sinisgalli e il drammatico profilo di Tedeschi così come nacquero per lui vivo, come se egli non fosse morto e fosse ancora in attesa di leggersi in questi giudizi. I lettori e i cultori di poesia non frettolosi dovrebbero tenere in gran conto il comunicato della vita e della poesia di Calogero».
    Io  so che è morto di solitudine, che è morto di tristezza. Forse mi sto inoltrando in discorsi letterari, equivoci, decadenti, in mitizzazioni facili e deformanti. Ma nessuno avrebbe retto a quella solitudine, alla tristezza che io ho visto sulla sua faccia. I suoi ultimi giorni sono stati terribili, ognuno può immaginarsi quanto, con questa morte che gli alitava intorno e gli penetrava sempre più dentro fino a alterargli la scrittura, sempre più piccola, caotica e declinante. Io stesso, per cercare di fargli superare il suo perenne vittimismo, scrivendogli sbrigativamente «la vita è come è: si accetta o si rifiuta» gli avrò dato una ulteriore spinta. Tutto ha contribuito, il suo carattere introverso e psicastenico, la sua estrema ricettività del tragico, la sua diffidenza patologica, la insonnia perenne, il disordine psichico e fisico in cui da decine di anni viveva, la impressionabilità e la tendenza al pessimismo, al «maudit» e ai testi di questa natura, un po' la sua natura di decadente e di lettore dei grandi testi del decadentismo romantico. Queste le illazioni storicistiche della sua situazione che, poi, a rapporto con tutta la sofferenza vera della sua vita, possono non convincere. Era come era, decadente e vittimista, un caso patologico, un pavido, un non-impegnato, ma di fronte all'assurdo cerchio della sua vita e della sua morte, di fronte alla sua solenne poesia, di fronte alla sua bontà che nessun poeta ha posseduto, che io sappia, tanto interamente, non si può andare con le diagnosi dei sociologhi e degli psichiatri ma con la devozione più aperta. Tutto può porsi in dubbio, si può non tollerare questi entusiasmi e questa pena: è la vita, si dirà, ognuno ne ha una sua porzione, Calogero non è né il primo né sarà l'ultimo dei travolti. Certo. Ciò che inquieta è altro: in piena epoca di sistemazioni sociali, demografiche e democratiche, in pieni miracoli economici, con progressi strabilianti di ogni natura, egli è stato destinato a vivere e a morire così.
   Le astrazioni, se si può dire, sono stati i suoi drammi: la vita e la morte, la poesia e l'amore. Come tutti gli ingenui e i puri se ne è fatto per tutta la vita la sua ossessione. Non possedendo, poi, la freddezza logica e il distacco dei forti, anzi l'entusiasmo travolgente del debole, ne è rimasto impaniato fino alla follia e alla morte.
   La folta schiera dei travolti, suicidi e disperati, si chiamino Villon o Poe, Van Gogh o Gerard de Nérval, Rigaut o Harte Crane, Virginia Woolf o Pavese, Attila Jòzsef o Enrico Fracassi, Von Kleist o Michelstaedter, Otto Weininger e Erskine Gorki, «poeti assassinati in una battaglia contro una società intollerabile» come diceva Tristan Tzara del suicidio di Attila Jòzsef, si allunga di un altro nome degno della stessa devozione. Era malato, aveva anche un po' deformato tutto, i suoi centri emozionali e ghiandolari gli trasformavano la vita, gliela rappresentavano attraverso le sue trances. Avrebbe potuto capire che poteva essere poeta anche se medico e non che per essere poeta lo stato ideale era il suo? Non faceva di queste considerazioni. Gli si poteva parlare per mesi di Ungaretti, Montale, Luzi, Saint John Perse, Costantino Kavqfis, William Carlos Williams, grandi poeti e buoni professori, giornalisti, diplomatici, medici.
   Le condizioni esterne gli hanno sempre aggravato tutto. Instabile, pauroso, afflitto, sradicato da tutte le possibili organizzazioni, senza soldi, senza amicizia, senza famiglia (rifiutava di stare con i fratelli e le cognate) voleva rimuginare da solo i quesiti del suo destino, sempre più sbandato, inquieto, allu-cinato, ingolfato di classicismo, del mito della poesia, i grandi miti di Novalis, Von Kleist, Holderlin, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire. La mitizzazione della poesia è stata la sua rovina.  Sapeva di morire ma, dopo due suicidi non riusciti, voleva, scrivendomene, apparirne incerto non so se per darsi o per darmi coraggio, per chiamare o per scacciare dalla sua faccia glabra e lontana l'assurdo invito. Non so dire quanto di letterarietà ci sia potuto anche essere in questo suo giro intorno alla morte, dicendo di rifiutarla, ma gioiosamente compiacendola: «che la vita si accetti o si rifiuti è cosa del tutto normale. Dopo due volte che ho tentato di suicidarmi, credo che non mi verrà più un'idea del genere per la terza volta. All'età mia e col carattere di cui dispongo anche il mondo quasi misterioso non sarebbe in grado di darmi mai più felicità. Che significherebbe ciò? Che penso del tutto improbabile una terza volontà di realizzare un terzo suicidio (...) che accetto cioè pienamente e completamente la vita senza essere in grado da un lato della verità etica, colla completa ignoranza del mondo misterioso e colla inadeguatezza, che sento a sufficienza, per le operazioni utili e necessarie alla vita. Che cosa di più potrei fare? Del resto se tali som i problemi che si presentano come regola e condizione della vita, d'una vita migliore di quella che sono costretto a fare, non vorrei, posto che qualcheduno potesse perdere, che nessuno dovesse perdere per causa mia, né io saprei come fare per avvicinarmi a questo mondo misterioso, posto che potesse dare qualcosa. O può darsi che io riceva abbastanza e non lo so troppo; ma non sono certamente felice. In che cosa potrebbe consistere la mia felicità, sarebbe troppo difficile dirlo, o richiederebbe molte parole complesse. Perciò è bene, in ogni caso, che ognuno si tenga la propria felicità o infelicità senza parlarne.. ». Intanto aveva già scritto su un gruppo di qua-derni ultimi questa dedica: «A un mondo a me veramente sconosciuto, / ad uno ritrovato, / (...) a la mia morte...». È la costruzione  psicologica di una morte spietata, maggiormente perché silenziosa.
Mi è stato chiesto un profilo biografico e invece sto facendo un trattato di interpretazione. Avrei dovuto elencare solo i fatti, le date, servirmi solo di testi, lettere e versi, elencare solo le sue peregrinazioni,, senza partecipazione, senza trasformazioni sentimentali. Ho decine di fogli su tutte queste possibili modalità, ho dovuto rifiutarle tutte, non potevo ridurre la sua vita indicibile a una sinossi. Nella cronologia biografica posta di seguito a questa presentazione sono elencate le sue date, i suoi piccoli giri, le sue limitate attività pratiche, i suoi puri amori. La sua vita è tutta qui: vocazione alla poesia. Per il resto è priva di qualunque fatto esterno, di viaggi, conoscenze, esperienze, movimenti. Tutto per lui era la poesia, anche fallimento dietro fallimento, delusione su delusione. Avesse avuto il carattere del « bohémien » avrebbe affrontato la vita di molti poeti della sua generazione, sarebbe corso a Roma o a Milano, si sarebbe inserito tra i gruppi  Quasimodo-Gatto-Cantatore-via Rugabella-Sinisgalli-Falqui-Scipione-De Libero. Era invece timido, legato alla madre, confuso, dibattuto.
La storia delle sue date è terribilmente spoglia. Figlio di benestanti in una zona e in una regione tra le più depresse d'Italia, nel 1910 certamente più di oggi, egli viene avviato, come vuole l'accorta tradizione familiare che elenca nelle sue tappe avi notai e farmacisti, avvocati e medici, agli studi completi, da cui ricavare una sicura professione. Segue gli studi con profitto anche se interrotti da qualche malattia e dalla instabilità del suo fisico e dalla tendenza romantica del suo carattere che lo spingono molto presto (pare che abbia cominciato a scrivere le sue prime poesie verso i 16-17 anni di età) a vedere delle cose l'aspetto lirico più che l'aspetto pratico, la riflessione più che l'azione. Certamente egli non sa ancora niente di questo atteggiamento psicologico che lo spinge alla poesia. Padre e madre lo tollerano poco, la tradizione familiare vuole che tutti i figli siano « a posto », laureati o, almeno diplomati. È la storia dei nuclei familiari delle nostre regioni meridionali, con tutto il portato delle ambizioni, delle repressioni, dei sacrifici, delle velleità, delle fughe, dei fallimenti, delle acquiescenze,  delle rare riuscite. Per lui la decisione è che deve fare il medico, il resto non conta. Legato alla famiglia e docile per natura egli non si ribella e studia la medicina con profitto ma contemporaneamente legge i poeti e di essi si infatua indiscriminatamente. Si ingolfa nel dannunzianesimo e in un tipo di cultura accademica imperante tra il '30-34: Papini, il Borgese, Oriani. Essendo ai margini e pressato dalle pratiche raccomandazioni materne non entra nel vivo della poesia e i suoi versi sono ancora letterari. Nel '34 scopre «Il Frontespizio», Carlo Betocchi e Piero Bargellini. Sono sintomatiche queste sue preferenze e queste sue scelte? Perché «Il Frontespizio» e non, per esempio, « Salaria»? La sua formazione è vagamente cattolica e perciò nel «Frontespizio» che, si sa, non ha un chiaro programma o, se lo ha, è solo quello di una generale ripresa del cattolicesimo nazionale non privo peraltro di palesi giustificazioni del momento politico, egli riesce a identificarla. Egli sa poco della vera situazione culturale di quegli anni né,  forse, la lettura di qualche rivista letteraria lo orienta veramente. I versi che invia a Bargellini gli vengono restituiti, quelli che invia a Betocchi giudicati non opportuni alla pubblicazione. Non desiste e invia versi anche a premi letterari e a riviste spurie, lasciandosi irretire dalla Centauro Editore a pubblicare, dietro pagamento naturalmente, la raccolta Poco suono. È afflitto da strane patofobie che lo studio della medicina contribuiscono a aggravare. Insiste con Betocchi per pubblicare sul «Frontespizio» e gli chiede qualche presentazione. Le sue poesie sono ancora informi e Betocchi, con giudizi attenti e pertinenti, glielo fa notare. Nel '31 si laurea in medicina e chirurgia, ma più che della laurea si occupa di scegliere poesie da inviare ancora a Betocchi che gli promette di pubblicarle sul «Frontespizio». La pubblicazione non avviene e egli ne trae la conclusione che il suo destino non è quello del poeta. Non scrive più a nessuno, né invia più versi. Comincia a esercitare la professione di medico, girando in infiniti paesi e paesini di Calabria. Pare tenga a distanza la poesia, non ne parla più. Né ho scoperto corrispondenza relativa, né per Betocchi né per altri o documenti che testimonino mandasse poesie a premi o a riviste.
   E'
instabile, « non mi trovo », scrive. Non rimane mai molto nello stesso luogo. Tende a tornare a Melicuccà, dalla madre, quando è via; a fuggirne, quando vi è. Ha una intensa corrispondenza con la madre; delicata e stupenda, per entrambi. Le parla della sistemazione della casa, della toponomastica dei paesi, della ubicazione topografica rispetto a Melicuccà, delle frazioni che compongono un paese, della padrona di casa, delle visite, di tutto ciò che pensa e fa. Le scrive quasi ogni settimana. Le racconta anche le cose più piccole, le fa i conti dei soldi che riceve (pochi, « Le visite sono ben pochi quelli che me le pagano... Non è da farsi eccessive illusioni al riguardo... ») e di quelli che spende, le parla degli incontri con quasi tutte le persone, le fa la storia di tutte le sensazioni, i timori, le paure, la solitudine. La madre fa altrettanto. Gli dice e glielo dirà ogni volta «ti affido al Cuore di Gesù, Lui ti saprà guidare» e «che Iddio ti benedica e ti liberi d'ogni pericolo». Gli raccomanda tutto, fino alle cose più piccole e strane, trepida e tenera, come se il figlio avesse ancora 10 anni. E' la storia eterna della trepidazione delle madri, ma di quelle meridionali in particolare per il miscuglio di « Cuori di Gesù», superstizione, malocchio, affanni irreali che la intesse. Tra il '42 e il '43 tenta il primo suicidio. Non ho trovato notizie precise. Si spara in direzione del cuore. I fratelli sono alla guerra. Viene salvato a fatica. Fa il medico sempre più a malincuore.
   Nella primavera del '44 si fidanza con Graziella, una studentessa in lettere di Reggio Calabria, ma dopo appena cinque o sei mesi rompe il fidanzamento e si rifugia a Melicuccà dalla madre. La sua vita è sempre più caotica. Abbandona i posti di lavoro, si rifugia dalla madre con più frequenza. Si ingolfa in tutte le letture: filosofia, scienze biologiche e psicologiche, teologia, poesia, matematica. Filosofia, poesia e matematica saranno poi persistenti termini di paragone. Non ancora ha dimenticato Graziella, incarica chi più gli riesce per riallacciare la relazione e le scrive lettere lunghissime di implorazione e di amore. Di questi anni (1946-1952) sono, forse, le poesie di Ma questo e di Come in dittici, volumi che pubblicherà nel '55 e nel '56 (Maia, Siena). Ha aggravamenti specifici e generali al suo già precario stato di salute. Ha disturbi polmonari, una pleurite. Si ritira definitivamente a Melicuccà dove fa, a malincuore e senza riscuotere fiducia, il medico-sostituto. La madre lo stimola, gli dà coraggio gli fa fare concorsi per altre provincie. Intanto invia i suoi dattiloscritti a molti scrittori, poeti, uomini di cultura e ha corrispondenza con sigle editoriali spurie che gli propongono pubblicazioni a pagamento.
   Nel '54 ottiene l'incarico di medico condotto ad interim a Campiglia d'Orcia (Siena), Anche qui «non si trova». Resiste, ripensando alla poesia. Rimette in ordine qualche dattiloscritto. Vuole pubblicare assolutamente. L'11 ottobre del '54 spedisce a Einaudi, a Milano (chissà perché a Einaudi e alla sede di Milano, poi) due dattiloscritti accompagnati da una lunga lettera (ne ho trovato tre versioni, tutte cariche di correzioni, aggiunte, ripensamenti, macchie) in cui, lungamente, spiega, giustifica, indaga la sua concezione di poesia. Einaudi non risponde (è probabile che tra le sedi di Milano e di Torino sia capitato qualche disguido). Nel novembre raggiunge Milano (farà in piazza del Duomo, in mezzo ai colombi, alcune fotografie. Una è riprodotta nelle prime pagine) per chiedere notizie direttamente. Alla sede della Einaudi di Milano gli dicono che non sanno niente dei suoi due dattiloscritti, perché tutti i dattiloscritti sono sempre rinviati alla sede centrale a Torino. Parte per Torino, con l'intenzione di parlare con Giulio Einaudi personalmente. Gli dicono che Einaudi è assente e che i dattiloscritti non sono ancora arrivati da Milano. (Tutta questa storia la racconterà egli stesso in una ulteriore lettera che scriverà nel febbraio del '55 a Einaudi e di cui ho trovato due minute).
   Manda o porta personalmente lettere e dattiloscritti anche a altri editori (non ho scoperto quali) che gli rispondono sempre evasivamente come è detto in una sua lettera di quasi dieci cartelle, trovata in sette minute tutte fitte di varianti, aggiunte, ricapitolazioni, spiegazioni, scritta in risposta ad una cartolina in cui gli si dava assicurazione che gli sarebbe stata comunicata la decisione su due dattiloscritti da lui consegnati.
   La sua sfiducia diventa sempre più patologica. Vuole tornare dalla madre e abbandonare il posto. Lo scrive al fratello Paolo che fa l'ingegnere comunale a Macerata: «ho dei disturbi tali che mi consigliano di abbandonare il posto (...) che mi accompagni almeno per un tratto a fare ritorno a casa, perché da solo non ce la faccio..». Il fratello gli scrive affettuosamente, gli dà coraggio.
    Resiste,ripensando alla poesia e si mette in contatto con la Editrice Maia di Siena. Nel febbraio del '55 riscrive a Einaudi che gli risponde: «Egregio Signore, abbiamo letto ed apprezzato le sue raccolte di poesie Ma questo e Poesie, e ci dispiace dirle che siamo costretti a restituirgliele, non avendo la nostra casa una apposita collana di poesie. Ci scusi il ritardo, dovuto all'ingente numero di manoscritti da esaminare, e voglia gradire i nostri migliori saluti. Giulio Einaudi Ed. S.p.A.».
   Nel settembre del '55 esce Ma questo (Maia, Siena). Non ho scoperto se ebbe recensioni, né se fu distribuito ai critici e a altri. Certamente lo spedisce a molti. Comincia con Betocchi spedendoglielo a Firenze con lettera «raccomandata r.r. » (28 settembre '55) all'indirizzo di Via Carnesecchi 23 che evidentemente ricordava da venti anni prima. La lettera gli viene respinta con la dichiarazione «sconosciuto al portalettere», così l'ho trovata. Lo manda a Remo Cantoni a «Epoca». Lo manda a Alba De Cespedes.
   Nel novembre del '55 viene dimesso da medico-condotto con questa deliberazione comunale: «...il dott. Lorenzo Calogero, medico condotto di Campiglia d'Orcia, al termine del periodo di esperimento e cioè il 23 gennaio 1956 è dimesso dal posto perché la popolazione non gli ha dimostrato fiducia tanto che nella quasi totalità si astiene dal ricorrere alle sue prestazioni ».
   E' sempre più malato. Si fa visitare dal professor E. Greppi dell'Università di Firenze. Gli riscontra: «segni generali di tossicosi e labilità in probabile rapporto con abuso di barbiturici e tabacco, in soggetto nervoso, suscettibile, ipoteso in atto... ».
   Il tarlo della poesia ricomincia interamente a prenderlo. Mette a punto la sua vocazione poetica scrivendone una cronistoria densa di strane implicazioni wittgensteiniane, certamente a lui ignote (sarà poi la « Premessa» per Parole del Tempo che uscirà nel gennaio del '56). Gli riprende però il panico di tutto come risulta da questa drammatica lettera alla madre: «...ti avevo inviato due lettere (...). Con esse credevo di averti detto più o meno il mio pensiero (...) che mi sento male, che non guadagno un quattrino, che non trovo alcuna possibilità migliore di quella che avrei trovate costà per pubblicare i miei versi, mi domando perché insisto a rimanere e non rinunzio definitivamente al posto (...). Se per le altre cose si potrebbe non prendersela a cuore, contro la cattiva salute non è facile far finta di non sapere o di non sapere o non voler sapere. Dovrei decidere di voler morire a Campiglia. Ma sai come avviene per chi si sente male, almeno lo potrai immaginare, oggi decide una cosa il giorno dopo un'altra cosa e cosi via. Se non fosse la pigrizia che mi impedisce o almeno mi ostacola a far le valigie, sarei a quest'ora sul treno mentre è probabile che dovrò essere preso, non dico di forza, ma dalla energia altrui per venire, se verrò. E poi venendo costà che cosa troverei? I mali certo non mi passerebbero e per il resto, non fosse altro che in conseguenza dei miei disturbi, zero.
   Il 21 novembre del '55 invia a Sinisgalli Ma Questo con la curiosa dedica: « All'illustre Sig. Ing./  Leonardo Sinisgalli / Poeta e scrittore / con viva ammirazione / Campiglia d'Orcia 21-11-55 - Lorenzo Calog. » e gli scrive una lunga lettera in tono un po' notarile (...« mi permetto di inviarLe, contemporaneamente alla presente, un mio libretto di versi, cui appongo una dedica. Come vedrà dalla mia scrittura e dal mio nome che figura già sulla carta intestata sono a Lei completamente sconosciuto; e sebbene non più giovane sono della classe del 1910né per questo o per altro La prego di trascurarmi per ciò di cui La richiederò nella presente »). Ma così circostanziata e precisa nei riferimenti e nelle letture da far pensare che egli ha seguito in questi anni molto bene la storia della nostra poesia. Da questa lettera ha inizio la strana e curiosa storia dei rapporti che porteranno Calogero alla pubblicazione di questo libro. Gli chiede una recensione («...anche se dovesse dirne tutto il male che si può immaginare. So che anche in tal modo ci guadagnerei. Si dovrebbe vedere sempre se Ella ritiene opportuno far guadagnare il tal modo ad uno sconosciuto, che pure fra gli amori più vivi della sua vita ebbe quello della poesia…»), una prefazione a un altro volume che sta per consegnare a Maia (Come in dittici,) e l'interessamento di farlo pubblicare presso qualche altro editore non a pagamento.
   Non smetterà più di scrivere a Sinisgalli. Invia Ma Questo anche a Enrico Vallecchi chiedendogli, forse e scavalcando Betocchi, di pubblicargli qualcosa e altro, da come si capisce da una risposta di Enrico Vallecchi venuta in mio possesso. Il 27 dicembre del '55 invia a Sinisgalli il dattiloscritto di Come in dittici e una pietosa lettera, l'ultima datata Campiglia d'Orcia in cui tra l'altro dice: « ...Sento la necessità di sbarazzarmi al più presto, obbligando anche la mia famiglia a qualche sacrificio dei miei libri di poesia, poiché prevedo una prossima fine. Scusi se le dico tanto. Non è mia volontà di affliggere nessuno, per cose per cui non mi si può dare alcun aiuto ».
   Esce entro i primi giorni di gennaio del '56 Parole del Tempo. Lo invia ancora a Bargellini e a Betocchi. Lascia Campiglia d'Orcia e rientra a Melicuccà. Passando da Roma va a conoscere Sinisgalli a « Civiltà delle Macchine» in via Torino 44 e gli dà Parole del Tempo. Sinisgalli (me lo dirà egli stesso, dopo) rimane molto impressionato della sua figura. Gli promette che gli farà la prefazione a Come in dittici. Subito dopo (27 gennaio '56) gliela spedisce a Melicuccà.
   Riporto integralmente la lettera e la prefazione proprio perché è a Sinisgalli che si deve la « scoperta» di Calogero. Ecco la lettera: « Carissimo amico, spero che abbia fatto un buon viaggio e che abbia trovato un po' di requie. Fui proprio sfortunato quella mattina a causa dei miei banali impegni di lavoro. Avrei voluto parlare a lungo, chiedere tante cose. Ho avuto sotto gli occhi per tanti giorni in questi ultimi tempi i suoi versi e avrei desiderato sapere qualcosa di più. Io non sono un crìtico e qualche volta sono riuscito a dire qualcosa di me e dei miei pensieri. Non so proprio se queste poche righe potranno soddisfare la sua fiducia. Penso almeno che costringeranno altri ad interessarsi del suo lavoro così assiduo, così arduo. Mi scriva e mi mandi sue notizie. Affettuosamente suo, Leonardo Sinisgalli». Ecco la prefazione: «Sono felice di aver trascorso molte ore su queste pagine di versi; la vita non mi concede tante soste, devo rimandare alla notte i rari incontri con i poeti. Quest'opera è di lettura difficile; ho fatto fatica ad assuefarmi ad un congegno espressivo un po' dissueto. La poesia ci dà oggi risultati anche troppo espliciti.
   «L'autore di questo libro ha pagato cara la sua follia: venti anni di vita oscura, senza amici, senza, complici. E ci si rende conto, ammirando l'estensione del suo dominio, che da tanti anni egli non poteva distrarre neppure un momento. Un fenomeno raro nella storia delle nostre lettere, una dedizione disperata e mostruosa. Si può capire tanto ardore avanzando delle ipotesi, fabbricando noi un retroscena o un sottosuolo per giustificare una carica di energia così insolita. Ma al poeta è bastata la sua natura, il suo sentirsi vivo soltanto per esprimersi. Ha allineato gli eventi in un flusso inesauribile di parole.
« Un'opera così serrata migliaia e migliaia di versi non può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una scommessa o un miracolo. Il poeta ha rifiutato i soccorsi delle retoriche più fertili: l'incanto del numero, della simmetria, degli accenti, gli attriti degli oggetti, delle occasioni, della memoria. Si è fidato soltanto delle sue capacità espressive, di una vitalità insita nel linguaggio (la « vita acre dei segni »), per cui l'arabesco, che è senza dubbio l'acquisto più glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno, ma diventa esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale.
   «Siamo, è chiaro, di fronte ad una poesia còlta che, però, scarta il lusso intellettuale, l'enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita. Quando dico arabesco, voglio sottintendere una algebra, un'ottica, una fisiologia, più che una calligrafia. Pensate all'iter Cézanne-Matisse-Klee, al Klee di quella memorabile epigrafe: " sono inafferrabile. Sono vicino al cuore della creazione più di quanto è possibile e tuttavia non quanto vorrei ". Perché il poeta rischia in ogni pagina di sembrare insensato, astruso, assurdo, rischia di non dire niente. L'operazione temeraria che egli conduce ha proprio l'indeterminatezza di certe analisi portate sulle quantità sfuggenti, di certe indagini al limite della catastrofe.
   «M'era venuta la tentazione di presentare, a persuasione del lettore dubitoso, qualche stralcio, qualche lacerto, e anticipare l'opera del tempo e affrettarla al punto da isolare nella vigna i grappoli incorruttibili. Mi sono subito accorto che non riusciva facile resecare le cellule di un tessuto sempre in crescita. Avrei messo insieme un museo, un atlante, avrei raccolto dei fossili o dei cristalli e sacrificata la virtù più segreta dell'opera, la sua linfa, la sua vena. Senza questa tensione le parole non sono che cadaveri.
   «Dietro le immagini c'è sicuramente un sistema, una dottrina di cui sentiamo la suggestione. C'è un'idea dell'essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali; il poeta arriva a cogliere un soffio, una scintilla e a restituircene qualche similitudine. Questa partecipazione, questa mediazione viene raggiunta quasi a dispetto della sua coscienza: le sue parole distorte, i suoi nessi incredibili, i suoi lapsus sembrano trascrizione di uno stato di estasi, egli descrive un sogno cosi minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un'altra vita, più resistente della morte... Leonardo Sinisgalli ».
   Sono le prime parole e i primi giudizi pubblici che Calogero riceve, da fonte autorevole, da quando ha cominciato a scrivere versi. Sinisgalli è convinto che Calogero è un poeta degno e lo presenta (24 febbraio '56) anche sul «Corriere d'Informazione » così: «...In questi giorni una grandiosa bizzarria è venuta a gettare nuova luce sulla natura della poesia e sui portentosi risultati delle sue irriproducibili operazioni. Il demone dell'analogia, della similitudine tiene in soggezione un uomo da oltre venti anni. Da venti anni quest'uomo scrive versi tutti i giorni. Ha riempito finora tre libri, ha scritto migliaia di poesie, ne ha salvate circa cinquecento. È un apporto massiccio alla storia delle nostre lettere. Il dottor Lorenzo Calogero è nativo di Melicuccà in provincia di Reggio Calabria. Da qualche anno è medico di condotta in un paesello di montagna, Campiglia d'Orcia in provincia di Siena. Vive in una cameretta gelata al quarto piano dì una casa anonima. Ha pubblicato a sue spese due volumi nel 1955, e un terzo volume uscirà quest'anno in cinquecento copie presso la casa editrice Maia di Siena. Tutto il mio tempo disponibile, le ore notturne, io le ho dedicate alla lettura di questi versi, tra la fine di dicembre e la fine di gennaio. Non mi rammarico del tempo perduto. Sono, anzi, felice di testimoniare per primo, di aver percorso e scoperto per primo le meravìglie di questo nuovo continente che viene ad allargare il dominio della poesia. I libri di Calogero, specie gli ultimi due, dovrebbero finalmente restituire ai nostri critici i Cecchi, i Bo, i Vigorelli, i Pampaloni, i De Robertis, i Ravegnani, i Macrì, i Contini, i Muscetta, i Ferrata, i Flora, i Sapegno, i Romano, i Sereni, i Falqui, i Bocelli, gli Alicata, i Gigli, gli Anceschi, i Debenedetti la fiducia nei poeti.
   La storia della poesia è una storia ininterrotta e un caso come questo di un poeta sconosciuto che porta un tributo inatteso di quindicimila versi deve essere per tutti un motivo di sommo gaudio. Di che qualità sia quest'opera ve lo dirò subito. È un groviglio insensato. Si ha l'impressione che il poeta restituisca nelle sue parole una realtà straordinariamente effimera, una realtà che vive, muore e rinasce in un soffio. Riesce a dare il senso di un moto, di un murmure, di un'animazione, di un brivido, la vita labilissima raccolta in una traccia di parole. È un groviglio qualche volta insensato come un arbusto che geme al vento o il lampo incerto che riusciamo a ritrovare nel brulichio della memoria. Una poesia dentro cui l'autore sembra sepolto, un folto intrico da cui a tratti scaturisce un richiamo irresistibile. Non resta una storia, una figura, un oggetto, ma solo il fluire di una vena, l'incanto di una voce. Perfino i sentimenti sono distrutti per dar luogo a questi grappoli cinerei di fiori. «Era un bisbiglio lungo il cammino / simile a un disegno deserto / di stelle di vetro nel vento. // (pag. 136 del dattiloscritto) Inclemente la neve sui passeri / sboccia dai freddi marmi alle mani. // (pag. 82 del dattiloscritto) Pure dalla nuvola alla rosa odo / la tua parola coi suoi resti e l'andare / e il venire e il probabile fluire / incerto delle vesti. // (pag. 78 del dattiloscritto). O forse la vita ch'io ebbi in dono è un sogno: scivola, sanguina / sul blu nero delle rose / al batter folle / d'un tuo ciglio... (pag. 50 del dattiloscritto)».
   Calogero è felice in questo periodo, mi dirà poi il fratello. Ma gli riprendono tutte le crisi, presto. È afflitto dalla fissazione che ha un cancro al polmone, la tbc e che deve morire entro l'anno. Viene ricoverato in una cllnica per malattìe nervose a Gagliano di Catanzaro. Tenta il secondo suicidio, recidendosi le vene dei polsi. Lo salvano anche questa volta. Si sente perseguitato. Il ricovero nella casa di cura di Gagliano («Villa Nuccia») gli fa nascere altre fobie, diffida dei fratelli e ha paura della follia o teme che la follia possa prenderlo interamente. Scrive ciò a Sinisgalli, pregandolo di intervenire presso i fratelli e presso la direzione della casa di cura.
   Esce, nei primi giorni di settembre del '56, Come in dittici con la prefazione di Sinisgalli. Neanche Come in dittici riceve attenzione dalla critica. Non ne ho trovato comunque elementi, né notizie o ritagli relativi. Vuole uscire da Villa Nuccia. Chiede a Sinisgalli di aiutarlo. Sinisgalli scrive alla madre, ai fratelli, al sindaco di Melicuccà. Viene dimesso. Il 9 settembre muore la madre. La disperazione è assoluta. Viene ricoverato ancora. La madre era il suo unico conforto.
   Nel '57, ancora Sinisgalli gli presenta un gruppo di poesie su «La Fiera Letteraria», scrive lettere ai fratelli, gli consiglia di concorrere al Premio Villa San Giovanni di cui è giudice. Anche Falqui, pure giudice del Premio Villa San Giovanni gli scrìve di partecipare al Premio. Non ho trovato questa lettera di Falqui.
Falqui invece mi ha fornito la risposta di Calogero (Melicuccà 26 giugno '57) strana e misteriosa :
   «Gentile Signor Falqui, ho ricevuto contemporaneamente alla Sua lettera colla quale mi consigliava di partecipare al concorso per il Premio Villa San Giovanni un'altra di Sinisgalli che mi dava il medesimo consiglio (...). Non le nascondo, tuttavia, che aver partecipato al Concorso mi pone in uno stato di disagio per quel tanto, almeno di possibile notorietà che potrebbe derivare al mio nome come poeta. Ella non sa o sa ben poco della mia vita di questi ultimi tempi e perciò può sembrarle strano un tale senso di disagio. All'atto in cui avevo deciso di partecipare mi sembrava che avrei potuto sopportare un tale rischio con molta disinvoltura. Ma potrebbe darsi che non sia così. Non le dirò certamente, di decidere Lei della decisione da me presa, ma a Lei, come amico che mi ha dato un consiglio, non potevo non dirLe i miei sentimenti. Stabilirà un po' Lei come e quanto essermi effettivamente utile. La ringrazio del suo gentile interessamento... ». Falqui gli riscrive (è l'unica lettera di Falqui che ho trovato). È bella, affabile, su carta intestata « Il Tempo » e l'aggiunta a penna, sotto la data (3 luglio '57) « Via Lovanio 1». Dice: «Gentile Calogero, oggi sono arrivate qui a Roma le copie dei libri spedite a Villa San Giovanni. Spedisca subito qui a Roma (Via di Villa Patrizi 4) le altre tre mancanti di Parole del tempo e di Ma questo. E per il resto della faccenda lasci che le cose vadano come meglio potranno andare. E non disperi. Ma altresì tenga conto che vincere un concorso è pur sempre come trionfare in un combattimento. Sono lieto che questa occasione mi dia modo di provarle la buona accoglienza già in precedenza da me riserbata alla sua opera. E speriamo che mi riesca di fare qualcosa di più. La terrò informata. Tutto dovrà essere deciso fra due settimane. Intanto la saluto, con una cordiale stretta di mano. Falqui». Vince (15 luglio '57) il Villa San Giovanni per la sua opera completa (Ma questo..., Parole del Tempo, Come in dittici,). La giuria del Villa San Giovanni era composta oltre che da Sinisgalli e Falqui anche da G. Selvaggi, da G.B. Angioletti, G. Doria, S. Solmi. La rivista «Battaglia Letteraria» di Reggio Calabria gli dedica una ridicola stroncatura. Invece Falqui, su «Il Tempo» (19 luglio '57) e Ferdinando Virdia su «La Voce Repubblicana» (20 luglio '57) e su «La Fiera Letteraria» (28 luglio) ne parlano degnamente. Falqui dice: «...tre raccolte che recano la testimonianza di una vigorosa ed ardua tempra poetica. Egli non s'appaga del facile successo oggi conseguibile con un po' di bravura e di furberia, ma s'impegna in una ricerca di chiarezza attraverso l'oscurità più perigliosa dei concetti e delle sensazioni. Le sue tre raccolte, a chi sappia leggerle come per primo ha saputo Leonardo Sinisgalli, e va registrato a suo onore — corrispondendo alla loro tensione e lasciandosene quasi prendere e portare, si configurano quasi come un unico poema: sorta di complicatissimo diario di una coscienza tra le più dolorosamente consapevoli della propria condizione. E Calogero non dovrebbe tardare ad ottenere quel giusto consenso di controllo e di plauso, ch'è tutto quanto un poeta sogna di poter conquistare e godere... ».

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